Nessuna festa, anche se nel calendario quel lunedì è sempre marcato in rosso o bianco, come l’Angelo che si vuol ricordare, cercando di non offenderlo nel suo mistero della cristianità credente.
E non l’abbiamo offeso, ne sono certo, perchè a “sa Pasca Minore”, dicono, non si prega ma…..si mangia! Dentro casa, fuori casa, in giardino o nei prati, se il tempo lo permette, da amici, da parenti, sempre in tanti, nel chiacchiericcio confuso, magari di fronte a “sa forredda” (caminetto) in una “cuchina manna” (cucina grande), fatta a posta per ospitare venti-trenta persone, in “sa domo mea”, ci dicevano Lucia e Stefano.
C’era di tutto, in “cussa mesa longa” (lungo e vecchio tavolo di legno), e non sto ad elencare le prelibatezze, cibo genuino, senza alcuna pretesa se non quella di essere fatte da nonne e da zie che la sanno ancora lunga in fatto di pasta fatta in casa, di dolci raffinati seppur eleganti, usando solo le
mani, le ricette antiche nella loro memoria e non in libri-ricettari di cucina, ormai divenuti cult letterari di successo, best-sellers dell’inutile!
In “su calicheddu”, antico portacarni in legno, tantissime lecornie, profumate, invitanti, come “su pani grossu”, pane fatto in casa, e i colori della natura negli svariati tipi di verdure, quelle dell’orto in collina.
E su tutto i rami di mirto, bacche rosse e bianche, a confondere i sapori, da respirare e goderne, mentre i nostri bambini andavano spaccando le ultime uova di cioccolato, quello industriale, ovviamente, unico “dolce neo” imposto da questa civiltà che si perpetua ancora nelle solite ripetizioni consumistiche.
Alle pareti, ormai non più affumicate, ma anche a terra, agli angoli della grande cucina, arnesi e utensili di un tempo andato, segni della memoria, del lavoro duro dei campi o di casa, nel rispetto dei bisnonni e dei nonni, delle loro fatiche di vita, e qualche fotografia, anch’essa vecchia di cento e passa anni.
“Su zumpeddu”, lo sgabello, “sa cadira”, la vecchia sedia di legno, “s’isportas”, vecchi cestini in vimini porta frutta o verdura, “su tulivru”, il setaccio per la farina e la rimanente crusca, “su talleri”, il tagliere di vecchio legno, per tutto, “sas canisteddas”, canestri di paglia o palma nana ed infine
“su carratellu”, l’antica botticella che conserva ancora e sempre quel vino che non è vino ma puro nettare d’uva, una volta degli dei, ora nostro, umani ubriaconi del presente.
E tutto questo, alla fine, mi ha letteralmente trascinato alla mia Finagliosu, alla mia infanzia dorata, a quel pane cucinato al forno, legna e fuoco per la nostra vita, a quel pane modellato a treccia con al centro un uovo sodo che si mangiava proprio in quel lunedì dell’Angelo, in segno di continuità e di verità e di amore per le cose del Creato, che crediamo, oggi, di consumare ancora e…. male, in una visione esattamente opposta al nostro “essere” di uomini e donne che pure si amano o fanno finta.
Featured image, Tenores di Bitti Mialinu Pira al Festival Internazionale del Folklore di Florinas (SS) nell’agosto 2009, fonte Wikipedia.