Pasquetta al Vajont

Creato il 27 aprile 2011 da Emanuelesecco
sottofondo: Red Hot Chili Peppers – Road Trippin’

Come posso solo descrivere le emozioni da me provate nel trovarmi per l’ennesima volta nei luoghi, tristi personaggi, del disastro del Vajont.
Come posso anche solo tentare di concretizzare l’inquietudine che mi fa provare il solo veder quell’enorme frana, conseguenza della stupidità umana.
Come posso, in un post, dare spazio a tutti i pensieri che, nel corso della giornata, si sono fatti largo nella mia mente dal momento della partenza.
Ecco, sì. Forse sarà bene cominciare dalla partenza.
Alle ore8.45 partimmo da casa. Eravamo io, la mia ragazza, mio fratello e la sua ragazza.

Obiettivo: Vajont.

Dopo 3 ore di strada, complice anche una mezz’oretta di pausa in un autogrill dalle parti di Mestre, vedemmo dalla statale passante per Longarone, la valle. Questa alta v, con le montagne a farle da contorno, e sbarrata da quel bianco muro che è una delle dighe più alte in Italia.
Ogni volta che vado al Vajont, e qui vi sto parlando della quarta volta, devo rispettare i miei rituali. Peccato che la piazzola situata proprio all’imboccatura del tunnel, che sfocia poi nella valle, fosse già occupato. Dannazione, la mia rituale sigaretta mirando la valle del Piave è saltata.
Poco male, mi fermai con la macchina in una piazzola a ridosso di una piccola porzione di quella frana che il 9 ottobre 1963 si staccò dal monte Toc per andare a riempiere il lago del Vajont, creato dalla suddetta diga, provocando così un’onda che seminò distruzione e morte sia all’interno della valle stessa che fuori di essa (la porzione di valle del Piave sulla quale si riversò la gigantesca massa d’acqua venne letteralmente spazzata via dalla faccia della terra). Come ogni volta il primo pensiero fu: ma porca troia, come avrà fatto la diga a resistere ad una tale forza della natura.
Ogni volta che vedo gli enormi spuntoni di roccia, e sono davvero enormi, dei quali è composta la frana maledico quei geologi, corrotti e venduti, che per far piacere alla SADE, ditta costruttrice della diga, negarono la presenza di una frana compatta, bollandola solo come “strato di sfasciume superficiale”.
Eh già. Posso solo dirvi che quelle rocce che ora compongono le scoscese pareti del monte Toc, sono strati rocciosi formatisi nel Triassico. Sfasciume superficiale? Non credo proprio, ma forse sto divagando un po' troppo.

Fumata la sigaretta ci siamo diretti a Erto, paese più a valle della diga. Appena arrivati ci siamo fiondati al bar a bere un buon aperitivo. Sosta che si è rivelata essere una lunga pausa di almeno un’ora e mezzo. Chissà, se Linda, la ragazza di mio fratello Gianluca, non avesse fatto cadere la birra forse non saremmo riusciti a stringere la mano a Mauro Corona.
Ebbene sì. Ho conosciuto Mauro Corona. Burbero esattamente come me lo immaginavo, ma che una volta scioltosi un po’ non può fare a meno di rivelarsi per quello che è: una persona anche socievole e fantastica nella sua semplicità. Siccome in quel momento stava spaccando la legna, ci chiese se magari ci andava di berci una birra con lui più tardi. Rifiutammo con garbo, anche perché non è giusto esagerare troppo con i personaggi come lui.
Già solo stringergli la mano è stato come un premio. Mi sono sentito come un bambino deliziato dalla caramella che sta gustando. In un lampo mi trovai a pensare ai suoi libri che mi sono trovato a leggere ed adorare, divorandoli e facendomi scappare qualche lacrima ora dell’ultima pagina.
Eh lo so, non ho nemmeno una fotografia a testimonianza dell’incontro, ma vi posso trascrivere la citazione, che tanto sa di zio Charles, che ci sparò in quattro e quattr’otto:

“La birra è come una scopata, bisogna sempre farse più di una”

Sarà la quarta volta che vado su al Vajont, ma sono certo che negli anni sarà questa quella che più mi rimarrà impressa.
Dopo aver salutato Mauro ci dirigemmo verso il paese vecchio, per poi sistemarci su un sentiero, dal quale si può ammirare un paesaggio maestoso come pochi, per mangiare un boccone.
Il pranzo durò un paio d’ore. Carburanti del pasto furono birra, sigarette, parole e un delizioso strudel salato preparato dalla mia ragazza. Ad un certo punto però decidemmo di dirigerci a Casso, paese più in alto di Erto e a strapiombo sulla diga.
Passeggiando per i sentieri fuori Casso incontrammo una vecchietta del posto, che tra una chiacchiera e l’altra ci indicò la strada per un sentiero dal quale si può vedere benissimo la diga e il fondo valle. Senza indugiare ci dirigemmo nella direzione indicataci e, tra gli alberi, potemmo ammirare questo spettacolo.

Riuscimmo persino a fotografare tre stambecchi che stavano allegramente banchettando ad una quindicina di metri da noi.
Tornati in paese decidemmo che era ora di andare. La valle aveva deciso che ce ne dovevamo tornare a casa, infatti enormi e scuri nuvoloni portatori di pioggia stavano pian piano scendendo dalle cime delle montagne.

E così si conclude il mio racconto, un po’ sommario, ma non mancherò di approfondire altri aspetti in rispettivi post, nelle prossime settimane (non fatemi pensare che devo ancora terminare il Diario di Londra).
Un interrogativo comunque rimane: perché ogni anno sento il bisogno sento il bisogno di recarmi al Vajont? Sinceramente non lo so.
Sarà che la storia mi ha toccato profondamente. Però, ogni volta che ci penso, mi trovo a ripetermi quel paio di paragrafi che Corona scrisse nel suo Storia di Neve, a proposito della magia e delle leggende che ancora impregnano la montagna e le sue tradizioni; le cito:

«[…] solo i corvi imperiali seguitavano a girare nel cielo di cenere con i loro “cra” che congelavano il cuore della gente più del freddo. Quei corvi solitari, alti lassù nel nulla, in mezzo al gelo della terra e del cielo, beccavano l’aria congelata che suonava come una campana d’argento, “tin tin”. I corvi beccavano l’aria indurita, ci sbattevano contro, la foravano con il becco, raschiavano con le ali, graffiavano con le zampe quell’aria solida disegnando nel cielo giravolte e linee scure.
A furia di scrivere nell’aria solida si era venuta a formare una specie di pagina lunga come una lettera, un annuncio di quel che sarebbe successo negli anni a venire. Ma nessuno vide mai quel messaggio, tutti stavano tappati in casa, al riparo dal freddo accanto ai fuochi perenni. Così nessuno riuscì a leggere niente, neanche le ultime parole che dicevano: “Scappate per l’amor di Dio da questo paese”»1

 

E.

 


1. MAURO CORONA, Storia di Neve, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 2010, p. 648.

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