Avanti, indietro. È seduto sulla panchina, con la testa china, il corpo quasi accartocciato e non mi guarda. Quando siamo arrivati parlava a voce bassa, senza interruzioni, ora è chiuso nel silenzio di chi accetta la sconfitta, e null’altro.
Avanti e indietro, le mie suole di gomma indurita non affondano nella terra che il ghiaccio ha reso inattaccabile; grosse, pesanti, non lasciano segno, come non ne lasciano le parole di Sacha. Perché qualunque cosa dica, io ho già deciso di andare. Nessuna parola può raggiungermi nel luogo oltre il muro dove ho lanciato i miei desideri. L’Europa è un pianeta ignoto, vista da Kišineov, percorre ellissi luminose e lontane, sillaba maliosa canti e incanti. Sei bella, ripete da lontano la sirena. Puoi avere, puoi essere. Di più. Devo sapere se quella voce mi racconta un sogno fasullo, dietro il muro.
Ras, dva, tri, četyrie, pyati…
Avanti, indietro, ancora avanti. Non lo guardo. Le frasi che mi ha gettato contro mi sono scivolate sulle spalle, sgocciolando sul terreno. Mi chiedo come mai non formino pozzanghere, potrei saltarvi dentro a piè pari, come una bambina incurante. Una bambina cattiva.
Ras, dva, tri, četyrie, pyati,
ya idù iskať…
(Uno, due, tre, quattro, cinque,
vengo a cercarti…)
Le punte degli stivali sono tonde, sformate, un reticolo fitto di rughe di troppo uso: erano di mia sorella, ma lei ha iniziato a lavorare in un albergo per stranieri a Mosca e ora porta solo scarpe col tacco. Cerco di muovere le dita intirizzite sotto le calze di lana spessa, ma non rispondono, sembrano morte, prigioniere del cuoio congelato.
Avanti, indietro. Stop. Sacha si è alzato, segue i miei passi e cerca di afferrarmi un braccio. Quando mi divincolo, la domanda schizza fuori e mi colpisce sul volto come uno sputo. La lascio cadere nel silenzio, nella pozza insieme alle altre, e vado via mentre ancora aspetta, chiusa nel mio silenzio opaco. Guardo le orrende punte marroni che vanno avanti, avanti. Invece ti amo, Sacha. Ma amarti non mi basta, non basta a questa vita informe, a queste trappole ghiacciate di pelle sulla pelle, non basta a scaldare le dita intirizzite. Ti amo da non morire, sussurro alle scarpe che si muovono.
Un passo, ancora uno.
Ras. Uno.
E sono oltre il muro.
Quando ci riesco, apro un occhio. L’altro non posso, se provo lo sento pulsare chiuso e gonfio. Ho il viso schiacciato sul pavimento, il freddo mi dà un po’ di sollievo alle labbra spaccate, riesco a pensare a questo. Mi sembra buffo riuscire a pensare solo a questo. Poi metto a fuoco le scarpe, le conto, le osservo senza capire: hanno le suole spesse, immacolate. Scarpe da sport di lusso; ma oggi il tappeto di carne sono io. Avanti, indietro…dio, tornano indietro. Devo avere le impronte di quelle suole sulla pelle, come le impronte delle mani nella carne. Eppure il dolore si avvicina piano, con piedi di piombo; ma quando infine è qui, deve eclissarsi davanti alla vergogna che arriva correndo, enorme, scomposta. Sei bella, mi hanno detto, prima che i canti della sirena diventassero urla. Mie, loro. Finché le botte mi hanno spiegato per filo e per segno che ho scavalcato il muro, e in questa stanza ho capito la verità, sillabata nel mio corpo, nuda meno di me, oscena meno di me, una bambina senza vergogna piena di vergogna.
Chiudo gli occhi per non vedere che si avvicinano ancora. Un passo, due. Mi rannicchio, non riesco a evitare il movimento nonostante il dolore, e le scarpe ridono, si fermano a un respiro dal mio viso: quando quelle stesse mani aguzzine mi aiutano ad alzarmi, è con gratitudine che mi lascio andare alla loro presa. La testa china, guardo i piedi scalzi, sporchi, incespicare incapaci come se non volessero mai più rispondermi. Un passo, ora. Avanti. I miei piedi ribelli obbediscono alla sirena che abbaia, si muovono. Brava bambina, maladjétz.
Ras, dva, tri, četyrie, pyati,
ya idù iskať…
(Uno, due, tre, quattro, cinque,
vengo a cercarti…)
Sono una brava bambina.
Avanti, indietro, e di nuovo avanti… Non ti dirò di tutti gli uomini, della strada, delle altre. Queste cose le vedi ogni giorno passando, che m’ignori o che giri lo sguardo fingendo il fastidio che copre la pietà: se sei fortunata e non sai cosa si sente ad avere addosso e dentro un corpo che sei certa di non desiderare, forse immagini lo stesso com’è abitare e muovere un corpo che vorresti non ti appartenesse. Sguardo vuoto da bambina stanca trascinato un passo dietro l’altro, traballando verso il prossimo cliente, incatenata a stivali di scricchiolante vernice rossa, sandali dal tacco feroce, pelle lucida su pelle nuda.
Avanti, indietro…come se avessi davanti tutta una strada, e non un tratto in affitto, scansando pozzanghere di urina, insulti e pezzi di lattice sparsi intorno, semi che non danno fiore.
Ras, dva, tri, četyrie, pyati,
ya idù iskat’,
ktò njé spriatalsia…
(Uno, due, tre, quattro, cinque,
vengo a cercarti,
se qualcuno non si è nascosto…)
Vista da qui, Kišineov è molto oltre il rimpianto, ormai. Camminare, camminare tutto il giorno, avanti, indietro, avanti…un passo, due, tre…e non riuscire ad immaginare l’unico passo che mi riporti oltre il muro.
…ya njé dinavat’.
(…non è colpa mia.)
Non è colpa mia, sussurro alle punte lucide.