Invece io ho la convinzione che non si tratti di una pure vertenza sindacale, fermo restando che ci sono aspetti contrattuali ineludibili. La pastorizia è l'epicentro etnico della questione sarda e in quanto tale è soggetta, dai primi anni dell'autonomia, a tentativi di soluzione finale sia con strumenti culturali sia con politiche economiche attive. La guerra fra il ruralismo della Democrazia cristiana e del Partito sardo da una parte e l'operaismo delle sinistre dall'altra ha fatto sì che i pastori trovassero casa soprattutto nella Dc e nel Psd'az e gli operai nelle sinistre che si dotarono di un importante bagaglio culturale e ideologico teso da un lato a demonizzare “l'individualismo” dei pastori e dall'altro a prospettare loro il cooperativismo come via d'uscita dall'arcaismo verso la modernità.
Sotto l'egemonia culturale delle sinistre, che pure arrivarono al governo della Sardegna molto tardi, le giunte regionali non resistettero alle seduzioni dei piani triennali o quinquennali, ai monte pascoli, all'incentivazione della cooperazione e ad altri strumenti del modernismo nemico del cosiddetto “individualismo”. Quel che si voleva, era la proletarizzazione di quegli imprenditori anomali che erano (e continuano ad essere) i pastori, tanto poco individualisti – nel senso dell'egoismo – che proprio nel loro mondo sono nati e cresciuti istituti giuridici come sa ponidura, quel meccanismo che consiste nella ricostituzione del gregge al pastore comunque e per qualsiasi ragione caduto in disgrazia. I giornali hanno parlato della ponidura organizzata da Sos Istentales a favore dei pastori abruzzesi colpiti dal terremoto, ma questo meccanismo scatta ancora oggi più spesso di quanto si pensi.
Gli oltre quaranta mila pastori esistenti solo qualche decina di anni fa sono diventati oggi meno della metà, mentre il numero di pecore e capre non è diminuito di conseguenza. Moltissimi sono emigrati con le loro greggi e oggi se la passano bene, a dimostrazione che fare il pastore, lontano dal clima politico-culturale e sociale della loro terra d'origine conviene. Produce reddito, senza alcun bisogno dell'assistenzialismo che, invece, in Sardegna ha corrotto il mondo dei pastori a tal punto da essere ancora oggi agognato e rivendicato.
La politica, anche quella più accorta, pensa oggi che per risolvere il dramma della pastorizia bisogna provvedere a qualcosa che, se proposta in altri settori (l'industria, la scuola, per esempio), suscita l'ira funesta di partiti, sindacati, anime belle: riduzione dei pastori e della produzione. Ventimila precari della scuola possono benissimo essere sostenuti, diecimila pastori no. Per gli operai dell'Alcoa ogni misura d'aiuto è lecita, per i pastori diocenescampieliberi sarebbe assistenzialismo. E dunque, anziché studiare le politiche attive per far crescere la pastorizia, aumentandone se il caso gli addetti, ecco la soluzione: si licenzino pastori e pecore.
So benissimo che, arrivati al punto di degrado attuale, ancora invischiati come siamo nella produzione abnorme di “pecorino romano”, immangiato e immangiabile, e dopo decenni di gioco al massacro della pastorizia con vista sulle magnifiche sorti e progressive dell'industrializzazione, le soluzioni non sono facili né a portata di mano. Ma la classe dirigente (dalla politica alla sindacale alla imprenditoriale) è tale solo se riesce a trovare le soluzioni, non ad aggirarle.
Tenendo conto, soprattutto chi professa idee di attaccamento alla nazione sarda, che questa affonda buona parte delle sue radici nella cultura pastorale che, si dà il caso, è fatta da e con il mondo dei “noi pastori”.
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