Patagonia, una terra dal nome sbagliato / Parte 3

Da Molipier @pier78

Il bus da Calafate parte in ritardo, ci aspettano sei ore di viaggio con il vento teso e monotono della pampa. Il vento ormai è considerato il terzo compagno di viaggio. Quando arrivo negli hostal, al banco chiedo ironicamente una matrimoniale più un letto “por el viento pampero“.

Ho divagato. Siamo in vista delle nostre montagne, in lontananza ancora piccole intravedo Fitz Roy e Cerro Torre. Il battito aumenta fino a tambureggiare, d’istinto mi alzo, vado verso il conducente e gli chiedo con le buone di fare una fermata. Mi risponde “NO”, categorico. Pero’, se ho un bisogno impellente, allora acconsente sì. Mi giro verso i passeggeri: “senior necessito un bagno, paramos?”

Accettano. Tutti, chi poco chi tanto dovevano fare pipì. Io dovevo fare una foto.

Dovevo fermare in uno scatto la visione che avevo davanti. Sapevo che non sarebbe stata una buona fotografia, ma un bellissimo ricordo. Arriviamo in El Chalten in perfetto ritardo di due ore. In Sudamerica la puntualità è insopportabile. Molto meglio il ritardo, sanno di essere in torto, e quindi diventano più disponibili. El Chalten è un villaggio della Patagonia, sperduto e sconsacrato dalla torma di  turisti che nulla hanno a che vedere con la montagna. Quello che conta non è cosa fai, ma come la fai, è  lo spirito.

Appena arrivo in un luogo cerco il più vecchio del paese, una specie di Treccani del posto. Ascolto i consigli e ringrazio. Il vecchio mi ha indicato quelli sì e quelli no del paese, l’immancabile pizzeria, l’hostal dove dormire. Chiedo cosa fa a El Chalten da una vita e mi risponde “miro las nubes e eschucio el viento, senior. Questa è “calma primitiva”.

Allontanandomi  sento chiamare, mi giro, una nuvola giallo/ocra svogliata con la chioma bianca, una birra orizzontale, copre il cielo, lui, mi viene incontro chiedendo: “italiani?” “Si!”.

In controluce, partendo dal basso verso l’alto: mi viene incontro un tipo dall’aria spumeggiante, con 75.000 km nelle suole , due stivaletti a punta infinita, di quelli per intenderci che possono spegnere i mozziconi agli angoli, pitonati bianco/neri e logori, mancano gli speroni insanguinati, un pastrano in cuoio rattoppato qua e là che arriva fino ai piedi, il cappello alla Indiana Jones, la barba accuratamente trascurata.

Sembra uscito da un film di Sergio Leone. Ely Wallach de noantri. Attacca: “So de Roma, non cio’ na lira, e ho fame. Emana un odore misto tra spontaneità, dignità e fame. Lo guardo, guardo Tiziana: “…Andiamo, sei dei nostri. Ho realizzato che spesso gente come questa non è in viaggio, è  in fuga, vivendo un conflitto insanabile con sè stessa.

Lui non mi ha detto più niente e io non ho  chiesto più niente. Così come era comparso, dopo la pizza, è scomparso. Non so neanche il suo nome, però mi ricordo di lui. Il cuore è il ripostiglio dei ricordi.

Abbiamo fatto il trekking in pace. Tre giorni fiabeschi, nella foresta, ai piedi delle ” Cattedrali di Granito del Fitz Roy” all’“Urlo Pietrificato del Cerro Torre”. Siamo ripartiti, felici, con un ritornello in testa: “so de Roma non  cio’ na lira, e ho fame.”

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“Aspetto sempre il momento migliore per arrampicare il mio sogno”


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