Patchwork, una questione di sguardi

Creato il 23 marzo 2016 da Masedomani @ma_se_domani

Siamo abituati a pensare all’arte come qualcosa di ausiliario ed effimero, la ciliegina sulla torta della conoscenza. Non è così. Spessissimo l’arte ha origini antiche e impensabili: nasce da culture lontane, ha fini e bisogni specifici, talvolta anche estremamente diversi rispetto a quelli che oggi siamo abituati a darle. Un manufatto, una statua, un dipinto che ai giorni nostri troviamo appeso alle pareti di un museo, intoccabile e bellissimo, adibito solo a essere ammirato; il più delle volte nasconde una storia, un passato, un’esistenza che mai ci saremmo immaginati. Il tempo passa, le società si evolvono, la volontà dei popoli muta. E con essa anche le forme artistiche, che di tale volontà sono espressione e suggello. O migrano magari, vengono riutilizzate con finalità differenti da quelle originarie, cambiano volto, nome, pubblico.

È il pubblico il centro di tutto. Lo sguardo che viene rivolto verso un certo oggetto ne determina per la gran parte il significato. L’oggetto cambia se messo di fronte a occhi diversi: un elettricista attento ad allestire le luci nella sala del Louvre guarderà la Gioconda con occhi diversi rispetto a quelli del restauratore che ne osserva le crepe, ne cura i segni del tempo. E lo sguardo di quest’ultimo sarà a sua volta differente rispetto a quello di un turista che si è fatto sei ore di aereo solo per riuscire a vedere (di sfuggita, dietro a un mare indefinito di schermi del telefono e fotocamere) quel celeberrimo capolavoro di Leonardo.

Guardare un’opera d’arte sapendola tale, insomma, contribuisce ad autenticarla come opera d’arte. Ma non è detto che quell’oggetto arte lo sia sempre stato. Non è detto che abbia sempre richiesto quel tipo di sguardo.

Qualche giorno fa mi sono imbattuta per caso in una piccola mostra – che si è rivelata essere una chicca – nella biblioteca di Vimercate. Pochi pezzi di patchwork, tutti a mio avviso molto belli. Alcuni geometrici, altri figurativi. Certi mi hanno ricordato le stampe giapponesi, con un chiaro rimando al culto della natura e dell’equilibrio che l’arte orientale persegue; in altri ho riscontrato un lampante influsso secessionista, un tributo all’estro di Klimt, per essere precisi. I miei occhi da amante d’arte hanno ricercato in quelle coperte ogni rimando, ogni influsso che la mia cultura figurativa ha saputo risvegliare.

Poi ho incontrato Orna Barness, una ragazza israeliana – l’artista -, che mi ha spigato la storia del patchwork. E ho imparato che le coperte decorate sono nate secoli fa nelle tribù africane: famiglie nomadi, dalla cultura orale. Senza l’ausilio della scrittura, le donne più anziane cucivano la storia del proprio popolo sulla stoffa. Una colorata memoria fatta di fili e immagini, destinata a scaldare le notti di viaggio. Ho imparato che successivamente, durante la colonizzazione, quelle stesse coperte venivano stese fuori dalla baracche di chi lavorava nelle piantagioni di cotone. La guardia bianca che passava, forte della sua cultura occidentale avvezza all’arte, vi ravvisava dei semplici motivi decorativi: il disperato tentativo per chi lì viveva, di rendere più ospitali quelle catapecchie adibite ad alloggio. Ma per i coloni quelle coperte erano luogo di organizzazione e di messaggi: quando dare il via alla rivolta, se seguire nella fuga le orme dell’orso, o le anatre in volo verso nord, in direzione del libero Canada.

Arte, significati segreti, racconti. La verità sta negli occhi di chi guarda.

Ancora una volta una questione di sguardi.

INFORMAZIONI

Messaggi del Patchwork

Biblioteca Civica di Vimercate

www.patchworkarts.com


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