Patrick Rothfuss: La paura del saggo

Creato il 09 novembre 2011 da Martinaframmartino

Il mio nome è Kvothe, che si pronuncia quasi come ‘Quote’. I nomi sono importanti, dato che dicono molto a proposito di una persona. Ho avuto più nomi di quanti ognuno avrebbe diritto.

Gli Adem mi chiamano Maedre. Che, a seconda di come viene detto, può voler dire La Fiamma, Il Tuono, o L’Albero Spezzato.

‘La Fiamma’ è ovvio per chiunque mi abbia mai visto. I miei capelli sono di un rosso vivido. Se fossi nato un paio di centinaia d’anni fa, probabilmente sarei stato bruciato come demone. Li tengo corti, ma sono ribelli. Se lasciati a sé stessi, rimangono ritti e sembra che stia andando a fuoco.

‘Il Tuono’ lo attribuisco a un forte timbro baritonale e a un lungo addestramento teatrale in tenera età.

Non ho mai pensato che ‘L’albero spezzato’ avesse un vero significato. Sebbene a posteriori suppongo che possa essere considerato quantomeno parzialmente profetico.

Il mio primo mentore mi chiamava E’lir perché ero intelligente e lo sapevo.

Il mio primo amore mi chiamava Dulator perché le piaceva il suono. Sono stato chiamato Shadicar, Ditoleggero e Sei Corde. Sono stato chiamato Kvothe il Senzasangue, Kvothe l’Arcano e Kvothe il Regicida. Mi sono guadagnato quei nomi. Li ho acquistati e ne ho pagato il prezzo.

Ma fui cresciuto come Kvothe. Mio padre una volta mi disse che significava ‘sapere’.

Naturalmente, sono stato chiamato con molti altri termini. Molti di questi sono rudi, anche se pochi erano immeritati.

Ho sottratto principesse a re dormienti nei tumuli. Ho ridotto in cenere la città di Trebon. Ho passato la notte con Felurian e me ne sono andato sia con la vita, sia con la sanità mentale. Sono stato espulso dall’Accademia a un’età inferiore a quella in cui la maggior parte della gente viene ammessa. Ho percorso alla luce della luna sentieri di cui altri temono di parlare durante il giorno. Ho parlato a Dei, amato donne e scritto canzoni che fanno piangere i menestrelli.

Potresti aver sentito parlare di me.”

Così si autopresenta Kvothe alle pagine 65 e 66 di Il nome del vento, primo romanzo delle Cronache dell’assassino del re di Patrick Rothfuss.

Il perché di E’lir e Senzasangue si scopre nel primo romanzo, degli Adem e di Felurian si parla nel secondo, La paura nel saggio. Romanzo nel quale Felurian ammonisce che “se non c’è luna un saggio ha timore” (pag. 777).

Qualche giorno fa ho terminato La paura del saggio, romanzo scritto benissimo. Come il primo è affascinante, il lettore pende letteralmente dalle labbra di Kvothe, però…

Però.

A romanzo finito c’è una lieve sensazione di fastidio, la stessa che avevo provato quest’estate quando avevo terminato A Dance with Dragons di George R.R. Martin. In primavera, in un articolo per FantasyMagazine che evidenziava il successo ottenuto negli Stati Uniti da Rothfuss, avevo già accostato i due scrittori.

Se li paragoniamo ai fan di George R.R. Martin quelli di Patrick Rothfuss possono considerarsi fortunati. Il nome del vento, romanzo d’esordio dello scrittore di Madison, Wisconsin, è della primavera del 2007, mentre A Feast for Crows risale addirittura all’autunno del 2005. Entrambi gli autori avrebbero dovuto pubblicare il volume successivo in tempi brevi, visto che tanto The Wise Man’s Fear quanto A Dance with Dragons erano già stati parzialmente scritti. Entrambi gli scrittori, però, sono incappati in difficoltà impreviste che hanno continuamente fatto slittare la data di pubblicazione delle loro opere e innervosito, quando non fatto arrabbiare, coloro che volevano leggere una nuova parte della storia che amavano tanto. Sia Rothfuss che Martin sono stati pesantemente criticati, e si sono visti costretti a spiegare sui rispettivi blog le ragioni del ritardo.

Per i fan di George l’attesa si protrarrà ancora per qualche mese, visto che la data di pubblicazione ufficiale per A Dance with Dragons è il 12 luglio. Quelli di Patrick invece stanno già festeggiando perché da qualche giorno possono stringere fra le mani e leggere il secondo romanzo che narra la vita e le avventure di Kvothe.

E che il romanzo fosse attesissimo lo dimostrano le classifiche di vendita, con il primo posto raggiunto in quella del New York Times. Risultato ancor più notevole se si considera che questo è solo il secondo romanzo di Rothfuss.

Giusto per fare qualche paragone con le opere fantasy che lo hanno preceduto possiamo rilevare come Martin abbia raggiunto il vertice della classifica solo con A Feast for Crows, quarto romanzo delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, Robert Jordan lo abbia fatto (anche con tutti i successivi volumi) solo a partire da Il sentiero dei pugnali, ottavo romanzo della Ruota del Tempo, David Eddings con La profetessa di Kell, quinto volume dell’Epopea dei Mallorean (decimo dei Belgariad se si considera anche la prima pentalogia dedicata in larga parte agli stessi personaggi), Terry Brooks con la versione romanzata di Star Wars episodio I. La minaccia fantasma, giunto nelle librerie tre settimane prima rispetto all’arrivo del film nelle sale cinematografiche, e Terry Goodkind con Fantasma, decimo episodio della Spada della verità. Insomma, per un autore fantasy con così poca esperienza si tratta di un risultato straordinario.

Questo è quanto avevo scritto in marzo. Giusto per mania di completezza aggiungo che The Wise Man’s Fear è rimasto in cima alla classifica una sola settimana, e che in seguito il primo posto è stato conquistato anche da A Dance with Dragons (tre settimane non consecutive) e da The Omen Machine di Terry Goodkind (una settimana).

Il problema, di entrambi i libri, è che non finiscono. Non che non finisce la saga, questo lo sapevamo da prima, ed era vero anche per i romanzi precedenti. No, sono i singoli libri a non finire, anche se lo fanno in modo diverso.

Martin mette carne al fuoco, poi ne mette altra, poi altra ancora, e il lettore si prepara spasmodicamente nell’attesa di un evento… che non c’è. Sì, uno dei protagonisti riceve un’amara sorpresa nelle ultime pagine, e proprio per questo, per chiarire meglio quanto è avvenuto, perché io sono convinta che non ci dobbiamo fidare delle apparenze, servirebbe almeno un altro capitolo. E per un altro personaggio viene lasciato tutto in sospeso. La scena è bella ma non risolve nulla, anzi, la situazione è terribilmente ingarbugliata, e per risolverla davvero sarebbe servito ben più di un capitolo. E poi ci sono altre trame lasciate in sospeso, troppo in sospeso. Non dico come era stata lasciata in sospeso Brienne in L’ombra della profezia, ma insomma, qualche informazione in più l’avremmo gradita.

A Game of Thrones (Il trono di spade e Il grande inverno), A Clash of Kings (Il regno dei lupi e La regina dei draghi) e ancor più A Storm of Swords (Tempesta di spade, I fiumi della guerra, Il portale delle tenebre) davano la sensazione di essere romanzi compiuti, nei quali il lettore aveva visto la storia procedere. In Dance la storia si interrompe sul più bello, come se lo scrittore fosse stato costretto a lasciare il libro a metà perché non aveva più pagine su cui scrivere. Mi sono divertita molto a leggere Dance, ma quant’è che Martin mi consentirà di leggere i capitoli mancanti?

Rothfuss combina l’opposto, si dimentica di scrivere il climax finale. La storia è straordinaria, anche se non mi sarebbe spiaciuto se Felurian avesse avuto un po’ di spazio in meno, ma finisce in modo un po’… moscio. Anche qui riprendo il mio articolo dello scorso marzo:

Com’è allora il romanzo? Molto lungo, innanzitutto. Il nome del vento era composto da 662 pagine, diventate 852 nella traduzione italiana (717 in quella tascabile, la versione che possiedo io). The Wise Man’s Fear raggiunge addirittura le 1008 pagine (1141 nella traduzione, ma solo perché l’editore ha usato caratteri minuscoli).

La Daw Books non ha mai avuto problemi a pubblicare volumi dalle notevoli dimensioni, e questo gli ha dato un’enorme libertà. Man mano che Patrick vedeva la sua opera crescere ha iniziato a preoccuparsi sempre più, finché non si è deciso a chiedere alla sua editor, Elizabeth Wollheim, se la lunghezza potesse essere un problema. Dopo una risata lei ha chiesto quanto il volume sarebbe stato lungo, e lui non ha potuto che dire “molto lungo”. Così Betsy ha fatto qualche ricerca prima di rispondergli che il loro paperback più lungo era di 420.000 parole, e che se lui fosse rimasto sotto quella cifra non ci sarebbe stato alcun problema. Il primo pensiero di Rothfuss, ha confidato, è stato “Posso essere più breve del più lungo volume mai pubblicato? Certo, penso di poterci riuscire”. Alla fine, a fronte di un Nome del vento composto da 250.000 parole, The Wise Man’s Fear ne conta ben 395.000. Meno della lunghezza limite, anche se non di molto. E questo nonostante tutti i suoi tentativi di essere sintetico.

Rothfuss non aveva più spazio, non poteva più andare avanti con la storia della vita di Kvothe, e quindi ha dovuto interrompere la storia lì dov’era arrivato, in un qualsiasi insignificante momento felice. Peccato che di solito i libri abbiano un finale importante, che dona significato al tutto. Qui il finale manca. Immagino che quando la trilogia sarà ultimata – se sarà una trilogia, perché comincio a nutrire qualche dubbio – l’assenza di un finale in questo romanzo non avrà più alcuna importanza. Ora però la cosa non può che lasciare un vago senso di delusione, anche perché ciò che si è letto prima è straordinario, e meriterebbe una conclusione allo stesso livello.

Con Il nome del vento abbiamo lasciato Kvothe all’Accademia. Ha pronunciato il nome una volta, si è fatto un nemico mortale, ha continuamente problemi economici, è innamorato di una ragazza più sfuggente di un’anguilla ed è alla caccia di un segreto sepolto così in profondità che la maggior parte delle persone non si rende nemmeno conto che esiste un segreto da scoprire davanti al loro naso. Contemporaneamente Kvothe è il locandiere della Pietra Miliare, e aspetta solo di morire.

Come si è passati da una figura all’altra? E perché?

La paura del saggio non lo dice. È per questo che non credo che Rothfuss riuscirà a racchiudere la sua storia in una trilogia, ha ancora troppe cose da raccontare per potercela fare.

Kvothe prosegue i suoi studi, e continua a cacciarsi nei guai. Ne viene fuori, ovviamente, sia perché è brillante sia perché è un lui più maturo a raccontare la storia della sua vita, quindi non può che emergere dalle peripezie vivo e fisicamente integro. Se il Jaime Lannister di A Dance with Dragons raccontasse la storia della sua vita, beh, già nel Trono di spade noteremmo che in qualche dettaglio lui è cambiato, giusto? Per Kvothe questo non accade, quindi può subire delusioni tremende, essere disprezzato e disprezzarsi a sua volta, ma comunque verrà fuori da tutti i problemi che incontrerà più o meno integro. Detto questo, non è il solo sapere se il protagonista sopravvive a rendere interessante la vicenda, altrimenti non potremmo più avere storie narrate in prima persona.

Le vicende dell’Accademia sono il diretto proseguimento di quanto già abbiamo letto. Affascinanti, ma aggiungono ben poco di nuovo. Poi Kvothe compie un viaggio, e compie diverse esperienze che gli servono a far emergere e maturare altri aspetti della sua personalità. E alla fine passi avanti nella trama più generale, quella legata ai Chandrian e al come e perché Kvothe sia diventato un locandiere, se ne fanno ben pochi. Ripeto, mi sono divertita a leggere (quasi) ogni singola parola, ma avrei voluto una conclusione più forte.

Riporto alcune frasi del romanzo:

«Ci sono due cose che dovete ricordare in particolar modo. Primo, i nostri nomi ci foggiano, e noi a nostra volta foggiamo i nostri nomi.» Smise di camminare avanti e indietro e ci guardò. «Secondo, perfino il nome più semplice è così complesso che la vostra mente non può nemmeno iniziare a percepirne i limiti, tanto meno comprenderlo abbastanza bene per pronunciarlo.»

Ci fu un lungo momento di silenzio. Elodin attese, il suo sguardo fisso su di noi.

Alla fine, Fenton colse l’esca. «Se è così, come può qualcuno essere un onomante?»

«Buona domanda» disse Elodin. «La risposta ovvia è che non è possibile. Che perfino il più semplice dei nomi è oltre la nostra portata.»” pag. 140.

E qui si potrebbe fare un discorso lunghissimo, perché il Dio della Bibbia diceva “Io sono colui che sono”, e c’è chi ancora cerca il Suo nome. Peccato che non ho il tempo per approfondire l’argomento, perché mi affascina moltissimo. Forse in futuro. Spero prima che Martin finisca Le cronache del ghiaccio e del fuoco

Ma visto che i nomi sono davvero importanti, Rothfuss ci torna sopra spiegando che “«Se non avessimo nomi altisonanti per le cose, nessuno ci prenderebbe sul serio»” (pag. 176).

Si contraddice? No, ma per sapere cosa significhino queste frasi dovete leggere il libro. Parola per parola, nome per nome.

«I vecchi mendicanti nelle storie non sono mai veramente vecchi mendicanti»” (pag. 335), e quello delle storie è un altro tema che mi porto dietro da anni. Se avessi tempo potrei scrivere libri su alcuni argomenti, ma mi sa che dovrò aspettare le calende greche. Che, come tutti sanno, non esistono.

«Il Cronista?» disse. «Non ho mai sentito parlare di lui.»

Il locandiere si voltò di nuovo, sorpreso. «Ah no?»

Graham scosse il capo.

«Sono sicuro di sì» disse il locandiere. «Porta in giro un grosso libro, e tutto quello che scrive lì dentro si avvera.»” pag. 392

Non ho il tempo di cercare la citazione precisa, ma Adso di Melk nel Nome della rosa di Umberto Eco a un certo punto si rende conto che i libri della biblioteca bisbigliano fra loro e si scambiano informazioni. E questo brano mi fa pensare alla fine infinita della Storia infinita di Michael Ende, o al cameo di Robert Jordan in La lama dei sogni. In fondo, tutto quello che i bravi scrittori scrivono si avvera, nei loro libri.

non c’è niente di più difficile al mondo che convincere qualcuno di una verità sconosciuta.” (pag. 621)

«Sono le domande a cui non sappiamo rispondere che ci insegnano di più. Ci insegnano come ragionare. Se dài a un uomo una risposta, tutto quello che ottiene è un piccolo fatto. Ma dàgli una domanda e lui cercherà le proprie risposte.»

Stesi la mia coperta per terra e ripiegai sopra il lacero mantello dell’ambulante per avvolgermici. «In tal modo, quando troverà le risposte, per lui saranno preziose. Più difficile è la domanda, più determinazione mettiamo nel cercare la risposta. E quanta più e la determinazione, tanto più impariamo.»” (pag. 647)

Kvothe interrompe il suo ragionamento sopraffatto da un ricordo improvviso, ma sono le amicizie più faticose da conquistare, quelle cercate, le più care, come scopre Il piccolo principe parlando con la volpe. E io mi interrompo qui, ribadendo una volta di più la mia esortazione a leggere il romanzo.



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