Magazine Arte

Paul Fusco’s Funeral Train, retrospettiva mitologica di un’immagine

Creato il 25 novembre 2013 da Wsf

Wha

Un milione di persone aspettavano lungo i binari. Il treno si muoveva lentissimo, si fermava spesso per dare la precedenza agli altri convogli, impiegammo quasi il triplo del tempo che si impiega normalmente. Ma era la velocità giusta per un funerale. Quel treno è stato il vero funerale, quello dell’America, è durato un’intera giornata, era fatto per il popolo. Era il funeral train”.

Paul Fusco

E’ l’otto giugno del 1968. Nell’insolita calura di un pomeriggio, poco distante dalla cattedrale di S. Patrick a Manhattan dove si è appena concluso il solenne funerale, dalla stazione di Penn Station sta per partire il treno che trasporterà la salma di Bob Kennedy nel cimitero di Arlington.

fusco (1)

Paul Fusco, fotografo di Look Magazine che quel giorno era di riposo, decide di fare un salto comunque in redazione, su Madison avenue. L’angoscia sociale era palpabile per le strade, in redazione i colleghi ciondolano lenti e trasognati tra scrivanie, corridoi e capannelli improvvisati. Il capo vede Paul e lo chiama nel proprio ufficio, gli dice quattro parole senza contesto, senza ulteriore spiegazioni: “Sali su quel treno”.

“Non sapevo cosa fare, pensavo che a Washington e poi al cimitero di Arlington avremmo trovato decine di colleghi e di telecamere ad aspettarci, avevo bisogno di un’idea subito. Ero pieno d’ansia ma mi bastò guardare fuori dal finestrino per capire: vidi la folla e tutto fu chiaro. Abbassai il finestrino, allora si poteva fare, e cominciai a scattare. Rimasi nella stessa posizione per otto ore a fotografare la gente accanto ai binari. Quella era la storia”.

funeral3
“Venni investito da un’onda emotiva immensa, c’era tutta l’America che era venuta a piangere Bobby, a rendergli omaggio. Vedevo mille inquadrature possibili, non avevo tempo per pensare, per aspettare, dovevo reagire al volo. Le mie macchine non avevano il motore e io mi ripetevo soltanto: “Dai, scatta, scatta, scatta”".

funeral2

Look Magazine non pubblicò nessuna delle foto di Fusco. Si disse che erano belle, ma Life era già uscito con le foto dell’evento. Così il reportage finì in archivio, fu dimenticato per i primi tre anni finché la rivista non chiuse per una crisi economica, nonostante vendesse più di sei milioni di copie.

funeral1
“Io mi portai a casa un centinaio di stampe e non mi sono mai dato pace che non fossero state pubblicate. Ho dovuto aspettare trent’anni per vederle stampate. Le proposi al primo anniversario, al secondo, poi dopo dieci anni, venti, venticinque. Nel frattempo ero diventato uno dei fotografi di Magnum ma ogni volta che c’era un anniversario tondo cominciavo il mio giro di art director, quotidiani, riviste. Nessuno le voleva, tutti mi dicevano di no. Nel trentesimo anniversario, era ormai il 1998, provo a chiamare Life, che era diventato un mensile, ma rispondono che non interessava. Torno sconsolato qui nella sede di Magnum e mi fermo a parlare con una giovane ragazza che era appena stata presa come photo editor, Natasha Lunn. Le dico sconsolato: “Sono trent’anni che vado in giro con questo lavoro, ma cosa devo fare per vederlo pubblicato?”. Mentre lo sto per rimettere via lei mi stupisce: “Io lo so, fammi provare” e telefona a George Magazine, il mensile del giovane John John Kennedy, il nipote di Bobby. Impiegò solo due minuti a convincerli e finalmente io vidi le mie foto pubblicate”.

***

Paul Fusco (1930) ha lavorato come fotografo per gli U.S. Army Signal Corps in Corea dal 1951 al 1953, per poi studiare fotogiornalismo alla Ohio University. Nel 1957 si trasferisce a New York e inizia a lavorare come fotografo di redazione per la rivista Look, con cui rimane fino al 1971. Per Look realizza numerosi reportage sociali sia negli Stati Uniti, che in Europa, Asia e Sud America. Quando la rivista chiude, Fusco chiede di entrare a Magnum Photos, di cui diventa membro permanente nel 1974. Le sue fotografie sono state pubblicate ampiamente dalle principali riviste statunitensi e da molte altre testate internazionali. Fusco vive a New York.

***

“Un mito è una narrazione investita di sacralità relativa alle origini del mondo o alle modalità con cui il mondo stesso e le creature viventi hanno raggiunto la forma presente in un certo contesto socio culturale o in un popolo specifico. Di solito i suoi protagonisti sono dei ed eroi come protagonisti delle origini del mondo in un contesto sacrale. Nel dire che il mito è una narrazione sacra s’intende che esso viene considerato verità di fede e che gli viene attribuito un significato religioso o spirituale. Ciò naturalmente non implica né che la narrazione sia vera, né che sia falsa.”

-Wikipedia

Quando tutto l’archivio fotografico del Funeral Train venne ritrovato negli archivi di stato, dieci anni dopo la pubblicazione postuma degli scatti principali, nel 1998, nel giro di poco tempo il reportage fece il giro degli spazi espositivi del mondo, suscitando lo stupore del caso. Ciò che colpisce e rende unica l’intera sequenza degli oltre duemila scatti, oltre ogni considerazione storico-mediatica, è il formato “primitivo” del servizio, l’emotività trasmessa dal “contenitore”, le lunghe sequenze dei mossi e degli sfocati, il sottoesposto della pellicola sul finire del giorno, nei pressi di Arlington. Non si riesce a immaginare forma migliore per un reportage fotografico di attualità sociale che quella spuria, flagellata dalle imposizioni del caso, del lavoro di Fusco. L’immagine della compostezza della famiglia americana schierata su cui ci fermiamo, fu posta a copertina della maggior parte dei cataloghi dell’evento stampati nel mondo. I margini consumati dal tempo che qualche scanner ha imposto, la storia brutale che la contiene e quella caotica che l’ha diffusa tra la gente, tagliano per questo scatto un angolo preciso di mito, un residuo umanamente insolubile che poche immagini dell’attualità storica recente riescono a trattenere.

funeralx

Il circo mediatico che abbiamo digerito ingoia tutto e riproduce precise linee di incisione nell’unità di pensiero, informa numericamente e crea il rumore di fondo, l’assenza di contesto, esalta la deformazione psicotica della realtà. I nostri ricordi, in buona parte, nascono bruciati dal chiasso del mondo che ci precede, i nostri anniversari trafiggono di candeline il territorio del dolce comune, lottano con miliardi di altre fiammelle che crescono da fuori per imporre il proprio bene. I dolori piangono lacrime catodiche, a ogni latitudine, si assiste a questo miracolo post-pagano che nevica nella boccia del mondo, un collettivo fantasma giudica l’espressione del nostro intimo sentimento, decretando il lecito, le pene accessorie e il percorso di redenzione certificata. Soltanto l’esplorazione del mito, la sua laica ricollocazione nel cerchio del quotidiano, può dare qualche forma di ristoro alla fonte; ci vuole coscienza, e spingere il concetto di arte vicino al limite del tempo che accade fuori, nel quotidiano della storia che replica incessantemente l’uomo. Sentirla come la sentiva il Wharol che introduce questo articolo, e farla come la fece Paul Fusco col suo Funeral Train, ripeterla negli anni come un mantra senza redenzione in cambio.

Guardi quest’immagine e leggi il segno di una brutalità antica che tesse le fila, al di là degli eventi, una faglia della ragione che si spezza sulla piattaforma curva del mondo. Nessuno salva la famiglia americana dalla tragedia di un’autopsia postuma. Non la salva la diagonale prospettica che la cattura nuda, in forma rigorosamente ordinale, come un’equazione di pura geometria esistenziale. Non la solleva in memoria la crudeltà di un evento di sconfinata onda che si ripercuote su ognuno. E’ già il 1968 e Kennedy se n’è appena andato per l’ennesima volta, è questa l’atroce modernità della beffa, la morte che si sdoppia, come se smettesse di appartenere al dominio caotico della natura, la morte appare allora come un algoritmo, una torbida faccenda tra uomo e macchina dei poteri forti, un potere devastante tale da far impallidire il povero dio del cielo, fin nel lontano Mid-West.

Non viene in aiuto di questa tribù archetipica di uomini nemmeno il modo in cui fisiognomica e postura leggono in loro l’invalicabile della biologia sociale, il segno che si è esercitata sui lineamenti smagriti. Sono solo corpi schiacciati da un destino, sono un padre e una madre piantati nel suolo primitivo di una ferrovia, lo sguardo di onesta speranza che non demorde, la piega di chi sa che c’è sempre una scarsità di freddo al risveglio. Negli occhi e nelle spalle sollevate del primogenito si nota già il peso di una gravità da ereditare per cui ci si fa forza, il corpo sta leggermente curvato, speculare a quello della madre di cui il ragazzo appare una perfetta interpretazione trans-generazionale; il secondogenito rispetta la postura naturale e i tratti somatici del padre, tuttavia negli occhi fiammeggia un po’ di quell’oscurità di passaggio tra infanzia e adolescenza, come una deflagrazione potenziale, la posizione di centro dell’immagine e il guardare verso l’obiettivo rende gli occhi del ragazzo un piccolo gorgo che attrae tutta la scena.  

funeral4

Siamo di fronte a un’immagine straordinaria che ha la potenza del misfatto, di un tempo denso che accade nel supporto sbiadito come nel cuore sociale della scena, fin dentro gli occhi dei protagonisti. E’ un treno che sta sfilando? E’ la salma di Kennedy? Di quale Kennedy, del primo, del secondo, del terzo? Di quale passaggio d’epoca si tratta? E’ il funerale eterno della speranza, l’alzabandiera protettivo della cerimonia rituale? O solo il destino che ci rende nudi e sciocchi e primitivi così come siamo emersi dal buio genitore?

“Una folla meravigliosa”, disse Arthur Schlesinger, lo storico che era stato alla Casa Bianca con John Kennedy prima di scrivere i discorsi di Bob, guardando fuori dal finestrino della penultima carrozza. “È vero – gli rispose Kenny O’Donnel, che del presidente ucciso a Dallas era stato l’assistente speciale – ma ora cosa faranno?”. 

Nelle dimensioni che preferite, siamo tutti la diagonale prospettica di quella famiglia ordinata, composta nel canone dell’ereditarietà, il fattore umano esposto alla gigantografia dei poteri forti, spaventosi, che dispongono del mondo fin dentro l’anima. In quella famiglia collettiva, dorme nascosto il virus sottile delle sociopatie innominabili.

funeralx1

http://www.paulfuscophoto.com/


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :