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“Paulu Piulu” di Giorgio MORALE. Recensione di Marco Scalabrino

Creato il 24 settembre 2010 da Fabry2010

“Paulu Piulu” di Giorgio MORALE. Recensione di Marco Scalabrino

Autunno

Dal culmine dell’estate al primo autunno la madre si preparava per l’inverno come per una spedizione. Dall’estate si portava le conserve, i sughi, i pomodori salati; dall’autunno, l’olio, il vino cotto, la marmellata di cotogne, le olive in salamoia. In quei giorni tutta Avola risuonava del paziente rimestare delle donne nei larghi piatti delle conserve sui marciapiedi e sui terrazzi, con gli abiti macchiati di pomodoro e in capo bianchi fazzoletti per proteggersi dal sole. In pieno agosto s’accendevano fuochi negli slarghi delle strade e si protendevano le braccia a mescolare il pomodoro che si faceva bollire in enormi calderoni. Grandi amori e grandi inimicizie, invidie e gelosie, confidenze e maldicenze a non finire nascevano per via di prestiti di piatti e strumenti concessi o negati; si sarebbero rincorsi fino all’anno successivo, quando avrebbero avuto una possibilità di appello. Nei fine settimana anche il grande spazio deserto della fabbrica s’animava di voci e attività. Poi era la volta delle mandorle, a far bella mostra di sé sui marciapiedi, dove eran fatte rotolare con rumore secco e legnoso; e delle carrube, dal suono leggero e vuoto, buone per bestie e bambini. I ragazzi, passando, non resistevano alla tentazione di un assaggio, e i loro appostamenti e andirivieni s’intrecciavano con quelli dei sensali e delle offerte. Poi entravano in azione i frantoi e i palmenti, lavorando giorno e notte, con tanti spettatori a contendersi i posti migliori. Tra questi la mamma Maria, attentissima a che nessuno le passasse avanti, senza pace finché non entrava in possesso del suo poco olio. Poi faceva il racconto delle battaglie che aveva dovuto sostenere. Poi…
… Ecco gli ultimi giorni grigi dell’autunno, quando la superficie dei campi è un manto pesante, morbido e umido, e anche le mosche volano sempre più sbadatamente, a volte sembrano persino addormentarsi in volo e, prigioniere dei loro sogni, forniscono un bersaglio fin troppo facile. Anche i nostri gesti sembra che rallentino, si facciano più meditati, più insistiti. Forse per la resistenza dell’aria, fattasi più vischiosa; forse per un compiacimento della volontà, che prolunga il tintinnare delle posate mentre si ripongono nel cassetto. I panni, umidi, sono più pesanti; i pavimenti, più appiccicosi. Paolo si strusciava addosso alla madre, impaziente di assaggiare le confetture messe da parte per l’inverno. Poi un giorno comincia a piovere e le montagne si schiariscono, si schiariscono, finché, con tanta acqua in mezzo, diventano trasparenti come la pioggia: è arrivato l’inverno. (Dal romanzo Paulu Piulu)

***

“Storia di un’infanzia” nelle cui pagine “trovare un po’ della Sicilia”, la definisce confidenzialmente l’Autore.
Chi ne sono i protagonisti? Dove si svolge l’azione? In che epoca? in genere sono i naturali, prioritari interrogativi che ci porremmo e ai quali gradiremmo dare una sollecita risposta. Ma, stavolta, ancor prima e non poco ci incuriosisce il titolo.
In verità, a essere dotati di un benché minimo spirito di osservazione, taluni significativi indizi ce li fornisce il disegno di Chandra Livia Candiani in copertina: un bambino (senza il volto, come a volerne celare l’identità nel timore che lo si possa riconoscere) che fluttua in un mare azzurro, sul cui fondo crediamo di distinguere un pezzo di torta con relative candeline da compleanno e alla cui sinistra in basso, defilata, di intravedere un’agave.
E dunque, se aggiungiamo questi tasselli alle tessere riportate in apertura, disponiamo già di un sommario quadro d’insieme.
Ma, dicevamo, ci intriga il titolo dell’opera e, quasi ci avesse ascoltato, ecco Giorgio Morale sollevarci da ogni affanno ed esaudire senza indugi la nostra curiosità: “Paulu era il nome, di cui Piulu era, con l’artificio della consonanza, una duplicazione. Piulu era un sostantivo onomatopeico, che si potrebbe tradurre con lamento. Indicava il verso di un uccello notturno.”
Paulu piulu, scopriamo ancora, sono le parole iniziali di una filastrocca; una filastrocca, di cui Paolo rideva orgoglioso, che un operaio della fabbrica gli ripeteva.
Paolo, l’abbiamo alfine dichiarato, è il nome del nostro protagonista. E la fabbrica … la fabbrica di mattoni è quella dove il padre, dopo essere stato bracciante agricolo “alla giornata”, lavora.
Con tali premesse, seguiamo allora Paolo che, equipaggiato della sua “bussola per la memoria, s’immerge come un palombaro” nella sua primissima infanzia, quasi che questa “giacesse in fondo a un oceano”, al fine di “trarne fuori inattesi reperti.”
“Il caldo dell’estate [che] toglieva il respiro e il sonno, il nonno [che] lo portava con sé sul carro e lo faceva sentire partecipe delle [sue] avventure per le strade della Sicilia, il [reiterato] cambiare casa e a volte i grandi litigi.”
Vengono così introdotti degli altri elementi, fattori e coprotagonisti, niente affatto decorativi quanto piuttosto salienti, del contesto in cui si sono svolti quei fatti che stanno alla base della narrazione: l’estate, “perché sempre d’estate? Forse perché l’estate illumina meglio i ricordi?”, la Sicilia, e nella fattispecie Avola, Noto [che] sembrava a Paolo un paese di fiaba, i monti Iblei, il fiume Anapo fra canne e papiri, il golfo di Siracusa, l’isola di Ortigia, i genitori, con sistematicità denominati “il padre di Paolo” e “la madre di Paolo”, i cui “cuori erano come una spugna strizzata fino in fondo” giacché per le loro vicissitudini, le quali si comprende bene hanno coinvolto pesantemente il nostro giovane eroe, “le famiglie non ci hanno aiutato” e, tra le conseguenze, avviene che “da quando siamo sposati, non abbiamo fatto che cambiare casa.”
Quanto a queste ultime vicende, dacché esse nella economia del romanzo non possono rimanere sottaciute, Giorgio Morale ci provvede di una succinta delucidazione: “Sposatisi in gran segreto, non avendo dove andare ad abitare, i genitori di Paolo erano tornati dalle rispettive famiglie d’origine. L’ingombrante segreto aveva avuto solo pochi giorni di vita. In seguito alle felicitazioni di un testimone, il padre aveva sottoposto a interrogatorio le figlie. Messa alle strette, la madre di Paolo aveva finito con l’ammettere tutto. Così era cominciato il lungo peregrinare.”
Ovviamente, non è nostro intendimento guastare la festa ai lettori e pertanto ci guarderemo bene dallo svelare la trama del lavoro. E tuttavia, per riguardo alle molteplici qualità del lavoro stesso, non possiamo esimerci dal segnalare alcune apprezzabili peculiarità afferenti alla scrittura, nonché all’animo e al costume dell’Autore e del suo campione e dei Siciliani.
Le espressioni idiomatiche, ad esempio, e/o gesti e posture propri dei Siciliani:
la madre di Paolo che ha le “pietre nello stomaco”, la zia Dina che andava ripetendo: “Che puzza! Che puzza!” e agitava le mani a far intendere quanta, la zia Sara che “batte la mano sulla coscia e sospira”;
talune fortunate formulazioni liriche o invenzioni: “chiusero la porta di casa alle sue galoppate”, “Paolo si contraeva, facendo rientrare le sporgenze: piedi, mani, naso, respiro”, “imparò a riconoscere dal suffisso “mila” le parole importanti”;
un aggancio, tra gli altri, a certa abietta attualità: “il padre ebbe la sua delusione: la liquidazione fu inferiore alle attese. Il proprietario, per alleggerire gli oneri, aveva dichiarato soltanto tre giornate lavorative la settimana”;
certi atteggiamenti, presumibilmente indotti dall’affastellamento di quelle tormentate contingenze, di Paolo, che “come un ragno, di pomeriggio cresceva al riparo degli angoli bui”, che all’asilo “non gioca, non mangia”, che quindi “trovava difficile costringere lettere e numeri in righe e quadretti, come animali in gabbie, da cui sporgevano una testa, una pancia o una zampa” e che nella sua solitudine cercava il padre dei cieli e si aspettava che Egli si affacciasse “da un balcone di nuvole”;
l’acquisizione della consapevolezza e della ineluttabilità della morte, fatto per il quale Paolo “per un po’ continuò a balbettare”.
All’epoca di quegli avvenimenti, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Paolo aveva tra i due e i nove anni e la povertà era il suo e loro pane quotidiano: l’illuminazione a candele o a petrolio, la cucina a legna, i recipienti per raccogliere l’acqua che filtrava dalle tegole … Ma a Paolo “la povertà non sembrava il peggiore dei mali”. Viceversa, si divertiva col gioco di confezionare torte di terra, accorreva con gioia allorché la nonna attendeva al cucito e “lamentando il rovinio degli anni, la mano non ferma, la vista che non l’accompagnava più, la vedeva prendere la mira, ma poi, a dispetto di tanta attesa, mancare il bersaglio della cruna dell’ago”, e soprattutto era felice che “il papà non è andato in America”.
Le cose, purtroppo, prenderanno una piega avversa e la via dell’emigrazione, obbligata e dolorosissima a motivo dello smembramento delle famiglie e dello sradicamento di tante migliaia di persone, implacabilmente si schiuderà per il nostro mini nucleo familiare.
Paolo, come nei desideri della madre, non diventerà un “ragazzo di strada”, conoscerà la neve che “nessuno di loro l’aveva mai vista”, abiterà una nuova casa … Ma, pur nel suo anelito “all’età adulta come a un sole sempre acceso”, forse mai si libererà del tutto del sogno “in cui si cade e non si arriva mai.”
Il libro, centosettanta pagine in due parti: MOSCA CIECA CON IL SOLE e LA TORTA DI SABBIA, più un breve epilogo, LA PIULA, è da considerare un’opera autobiografica? In buona misura, probabilmente, sì. Ciò nondimeno, citando Marina Cvetaeva: “la storia delle mie verità – ecco l’infanzia”, riteniamo esso sia da catalogare quale un romanzo in cui “il sogno, la memoria, la storia collettiva e individuale sono protagonisti”.
En passant, rileviamo l’uso discretissimo del dialetto.
(Luglio 2010 – Marco Scalabrino)

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GIORGIO MORALE
Paulu Piulu
Manni editore 2005



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