La paura di volare è molto diffusa... e quando capitano eventi tragici legati al "volo" (dagli attentati terroristici dell'11 settembre al recente noto disastro del "Germanwings") è inevitabilmente destinata ad aumentare.
Volete sapere come l'ha superata Ferdinando Camon? Leggete il pezzo!
(Massimo Maugeri)
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Paura di volare
di Ferdinando Camon
Un anno dopo mi telefonano i russi. Ricorre un anniversario della liberazione di Mosca dall’assedio nazista. Grande festa, m’invitano. Con la morte nel cuore rifiuto, gli confesso che ho paura di volare. Protestano che i loro aerei sono più sicuri dei nostri. A telefonarmi è Gheorghj Brejtburd, mio traduttore, responsabile delle relazioni culturali dell’Urss con l’Italia. Si scandalizza per il rifiuto. Poi telefona a Goffredo Parise, ma Parise in quel tempo entrava e usciva dagli ospedali, e in quel momento era dentro. Morale: alla festa per la liberazione di Mosca dall’assedio nazista non ci andò nessuno scrittore italiano. Quando penso che io non ci sono andato per la paura di volare, mi vergogno ancor oggi.
L’anno dopo tre scrittori sovietici vengono in Italia, mi chiedono se possiamo vederci. Ci diamo appuntamento a Venezia, in un ristorante vicino a San Marco. Sono Gheorgi Brejtburd, Yuri Bondarev e Cingiz Ajtmatov. Quest’ultimo era il più grande dei tre, i suoi romanzi eran tradotti anche in italiano, da Mursia. Kirghiso. Al ristorante si presenta con un enorme foruncolo rosso fiammante sul naso, in piena esplosione. Brejtburd mi spiega che aveva “paura di volare” e perciò eran venuti tutti in treno: due giorni e due notti in vagone-letto, mangiando panini e bevendo vodka. Secondo me, tutte le paure di Ajtmatov gli eran venute nel carcere della Lubianka, dove il partito l’aveva rinchiuso. Ho sempre pensato la paura di volare come parente stretta della claustrofobia. Avevano già i biglietti ferroviari per il ritorno, altri giorni e altre notti in vagone letto, per evitare l’aereo. Cercavano un equivalente italiano della vodka, e secondo loro era la grappa.
Con la paura di volare non puoi più vivere, perdi il mondo. In me (come, credo, in tutti) la “paura di volare” si concentrava soprattutto in un momento, il decollo. Il distacco dalla terra. Cioè, dalla Madre Terra. Se fossi riuscito ad avere un distacco felice, uno solo, il cerchio si sarebbe rotto. Bastava uno. “Ci penso io”, mi fa un’amica. Era una psicoterapeuta, lavorava a guarire i drogati. “E come fai?” le chiesi. “Tu pagami un volo Venezia-Milano, e un pranzo a Milano”. Combiniamo. Il volo Venezia-Milano dura venti minuti, è solo salita e solo discesa. Non c’è altro. Per chi ha paura di volare, è tutto terrore. Siamo seduti affiancati, l’aereo è per tre quarti vuoto. Rulla e si stacca. “Ecco – dico -, ora si scatena l’angoscia”, la sento attaccata alle viscere con le unghie come un gatto. La signora (molto graziosa, ma sposata con un uomo assai più bello di me) sblocca il suo sedile, inclina lo schienale, butta le gambe in aria, fa svettare le caviglie ed esclama: ”Ma non ho delle belle gambe?”. I passeggeri tedeschi strabuzzano gli occhi. Io mi spavento e le tiro giù le gambe: “Ma che fai?, sei matta?”. Intanto l’aereo è arrivato in quota e fila in orizzontale. Il gatto stacca le unghie dalle mie viscere e se ne va. A Milano compro un libro e lo regalo alla signora con una dedica: “A Emma [si chiama così], che m’ha fatto volare”. Ho saputo poi che la signora fa girare il libro fra le amiche, e tutte son convinte che “m’ha fatto volare” alluda a chissà quale pratica erotica. Non è vero. Non c’è stato niente di niente a Milano, fra me e quella signora. Lo giuro.