PAVIA. E’ ancora lì il fantasma irrisolto della ex Chatillon.

Creato il 07 gennaio 2016 da Agipapress
PAVIA. Ex Chatillon, un fantasma ancora ben presente e pericoloso sul territorio pavese a Motta San Damiano alle porte di Pavia e al confine con Valle Salimbene. Una delle tante aree dismesse e inquinate della città, almeno 25 stando ad un’infografica realizzata dal quotidiano locale a fine 2014.
E così sembra lontano quel 14 maggio 2012 giorno in cui la Procura della Repubblica di Pavia dando  disposizione al Corpo Forestale, stabiliva il sequestro dell’area ex Chatillon, una superficie di circa 60mila metri quadri sui quali resistono ancora i resti di uno stabilimento che lavorava lo zolfo per la produzione dell’industria chimico-tessile nazionale, non solo per la Snia Viscosa. 
Una procedura nella produzione che determinava un inquinamento pesante a seguito dell'uso di zolfo, bromo, carbonio e idrocarburi.
Un cocktail di sostanze tossiche che ha inquinato per anni i terreni dello stabilimento e delle aree limitrofe, inclusa la roggia che scorreva nella zona, area che doveva quindi essere sottoposta a bonifica prima di procedere con la costruzione di un’area destinata ad abitazioni e uffici.
COSA ERA LA CHATILLON?Risale al 1917 la fondazione della Soie de Chatillon, “Seta di Chatillone” che aveva un primo stabilimento nell’omonimo comune valdostano, nei pressi delle centrali idroelettriche, scelta strategica per quell’epoca. Si produceva viscosa (poi rayon) e il successo portò subito ad una crescita dell’azienda che aprì in Piemonte, Ivrea e Vercelli, dove diede lavoro a migliaia di operai, principalmente femminile nel periodo di produzione di filati.In fase di sviluppo industriale, la Chatillon a Pavia, esattamente a Motta San Diamo, acquisì la S.A.Carlo De Sigis ovvero uno stabilimento per la produzione del solfuro di carbonio. Questa sostanza era indispensabile alla produzione del rayon, la cosiddetta “seta artificiale” e, con il procedimento viscosa, il rayon si ricavava dalla reazione della cellulosa con il solfuro di carbonio. Da ciò l’importanza dell’acquisizione e dello sviluppo della fabbrica pavese che infatti venne inserita fra le controllate della Chatillon. Dopo essere passata di mano in mano, nel 1926 alla Banca Commerciale Italiana, nel 1929 alla Sofindit, nel 1934 all’IRI, nel 1942 viene ceduta ad un consorzio di industriali lanieri assumendo il nome di Chatillon-Società Anonima Italiana Fibre Tessili Artificiali Spa ampliando, nel dopoguerra, la produzione delle fibre sintetiche e in particolare un tipo di nylon, il nylon6.  Lo sviluppo e il peso nell’economia italiana della Chatillon fu una continua crescita tanto che il suo presidente Furio Cicogna (in foto) divenne presidente di Confindustria dal 1961 al 1966, anno in cui la Chatillon confluì nel gruppo Montedison a seguito della fusione fra la Montecatini e la Edison, di cui deteneva il controllo quando dopo che nel 1955 era entrata nella sua orbita e assorbendo poi l’Acsa di Porto Marghera. Nel 1972 la Chatillon incorporerà altre due aziende la Rhodiatoce e la Polymer cambiando nome in Montefibre che riuniva, sotto l’egida della Montedison, il gruppo delle aziende produttrici delle fibre chimiche. Nel 1981 dopo una riorganizzazione delle attività di Montefibre, la Chatillon andò a definire una società monoprodotto che gestiva con un capitale di 2 miliardi di lire e 1200 dipendenti, la produzione della viscosa e dell’acetato di cellulosa a Chatillone e a Vercelli. Le perdite subite in borsa però portarono alla crisi dell’azienda e nel 1985 venne definitivamente liquidata dalla Montefibre.

E così dopo indagini della magistratura su segnalazioni raccolte; dopo i carotaggi condotti dal NIPAF del Corpo Forestale dello Stato e delle Guardie del Parco del Ticino, che nell’area avevano rinvenuto presenza diffusa di zolfo, metalli tossici, idrocarburi pesanti in quantità elevate tanto che anche nella roggia nei pressi dello stabilimento venivano rilevate tracce e chiazze gialle e rossastre segno della presenza di zolfo (nel 2012 i rilevamenti e i carotaggi effettuati sul posto indicavano che l’inquinamento da queste sostanze arrivava ad una profondità di 8 metri a seguito dell’interramento di rifiuti tossici che non erano stati messi in sicurezza); dopo la raccolta di dati da inviare all’ARPA e che l’Arpa sostenne di non aver mai ricevuto; dopo rimpalli di responsabilità in merito a chi spettasse l’onere della bonifica (la ex Chatillon non esisteva più e dopo alcuni passaggi, era finita acquistata dalla Maltauro che si era trovata ad ereditare l’onere della bonifica oltre alle accuse della Provincia di lasciare aggravarsi la situazione inquinante e la richiesta di adottare un piano di caratterizzazione da parte del Comune);  dopo una sentenza del Tar che liberava da ogni responsabilità di inquinamento la Maltauro di fatto cancellando l’imposizione della Provincia a che la proprietà procedesse con la bonifica) e contro la cui decisione l’amministrazione comunale ricorse al Consiglio di Stato nel novembre 2014; dopo tutto questo le cose non sono ancora state definite. Ad aggiungersi alle numerose documentazioni in merito a questa vicenda paradossale, si aggiunge anzitutto il PGT del luglio 2012 che nella scheda Area AD6, alla voce “Bonifica” riporta: “Progetto di bonifica concluso con misure di messa in sicurezza permanente (area7) secondo le disposizioni del d.lgs.152/2006 e s.m.i. Nella campagna di campionamento delle acque di falda, effettuata nell’anno 2011, sono stati riscontrati ulteriori superamenti. Nell’anno 2011 è stato approvato il progetto MISE in fase di esecuzione”.
A queste informazioni se ne aggiungono di successive in data 30 giugno 2014 relative ad un documento sulla “Situazione delle aree oggetto di bonifiche e indagini ambientali” redatto dall’Ufficio tecnico del Comune, nel quale si aggiunge che il “progetto di Messa In Sicurezza delle Acque di Falda era stato presentato e approvato” così come il Piano della Caratterizzazione e nelle note si aggiungeva che era “in svolgimento una campagna di monitoraggio delle acque di falda”.
Nel frattempo, nel novembre 2010 venne presentata un’interpellanza dei consiglieri del PD all’opposizione in consiglio comunale, Fabio Castagna, Davide Ottini e Davide Lazzari che facendo riferimento ad un articolo della stampa locale chiedevano di sapere “quali provvedimenti fossero stati prescritti e non risultano essere stati effettuati in merito alla bonifica dell’area” e domandando anche quale fosse la localizzazione della rotonda prevista dal Piano per l’area ex Chatillon e quali interventi di pubblica utilità fossero previsti nell’ambito del Piano per la suddetta area”.
Una domanda che, almeno per quanto riguarda la bonifica, andrebbe rivolta attualmente a quegli stessi firmatari dell’interpellanza, ora seduti in maggioranza e che forse possono trovare una risposta nelle documentazioni del Comune, e non solo.
E a quella interpellanza, si aggiunge nel gennaio 2012 un’altra dichiarazione dell’allora assessore provinciale Alberto Lasagna, rilasciata sempre al quotidiano locale: “Lasciamo lavorare la magistratura. Per quanto riguarda la Provincia il ruolo è di massima collaborazione e trasparenza soprattutto perché ci interessa capire cosa è accaduto e tutelare la salute pubblica. Se ci sono responsabilità è giu
sto che emergano”.
Ebbene il problema, dopo tutto questo calvario, a gennaio 2016 è tutt’altro che risolto.  E l’area versa nel più totale degrado.
Per questo motivo, il gruppo politico di Azione Democratica ha deciso di mettere l’accento sulla complessa questione ambientale pavese e, dopo aver richiamato l’attenzione sulla vicenda del Gravellone, prosegue ora con il porre l'accento sul caso della ex Chatillon. 
“Abbiamo appena fatto una richiesta di accesso agli atti a Regione e al Comune di Pavia in merito a questa vicenda – comunica Fabrizio Protti presidente di AD -. Sono 64.000 metri di area con una forte contaminazione da zolfo e altri materiali pericolosissimi, posta sotto sequestro e poi lasciata al degrado più totale. Un contenzioso tra attuale proprietario e curatela del vecchio proprietario non può comunque esimere il Comune dal procedere con la bonifica per poi fare rivalsa sui fondi di Stato o sequestrando il terreno come previsto dalle normative. Il sito é pericoloso – conclude Protti - e procrastinare gli interventi é un atteggiamento quanto meno illogico se non addirittura rischioso. L'intervento deve essere fatto senza se e senza ma e deve essere fatto subito”.
Miriam Agili