In ogni caso mi appare tutto assurdo. La mansarda è favolosa, pulita, silenziosa, rimessa a nuovo. Mi sento meravigliosamente. Non ci sono finestre ma solo abbaini, per cui il mondo esterno non trapela. Le luci sono soffuse e in linea di massima l’ambiente è abbastanza buio e confortevole. Fuori piove e il rumore della pioggia sul tetto è la miglior terapia possibile.
Giù di sotto ci sono tutti, ed è un pensiero confortante.
Mia madre ha cucinato il risotto con i porri, un gusto che non ricordavo più. Il gusto della famiglia, quella vera, quella autentica, quella che non ti scegli, quella che ti calza addosso come una scarpa stretta ma che cristo, quanto mi era mancata!
Sono stanchissima, lo ammetto, ma non riesco a prendere sonno. Il letto ha le lenzuola fresche e profumate di lavanda, ma sarà il jet leg, sarà l’emozione no lo so, ma gli occhi non si chiudono.
E’ stata una giornata intesa.
Sono partita da NYC che era ancora buio, con un uomo con cui non parlo dall’altra sera, che ha tirato fuori la mercedes rossa dal garage e ha guidato nel traffico folle del mattino perché non ha voluto che prendessi un cab come era previsto. Un uomo che non riusciva a lasciarmi andare. Che mi teneva abbracciata così stretta da farmi mancare il fiato e ripeteva come un liet motive “dimmi che torni. Perché torni vero? Dimmi che torni.” E io a snocciolare rassicurazioni, che non sono nemmeno brava a dare. Hai il numero di casa dei miei, del cellulare italiano, di quello di mia sorella, hai la mail. Ho promesso che tornerò, e dentro di me lo so che tornerò, perché io torno sempre da Spencer. Diamo alle cose il loro nome. Ma non ora. Ora sono qui, ora sono in terapia, ora voglio provare a me stessa che non si muore fra queste cazzo di mura pavesi color pesca.
Respira Ele, respira. Eleonora. E qui ti devi abituare, rassegnare persino non ci sono cazzi.
Sono partita dal JFK e non ci sono abituata, era tutto strano, diverso.
Ho pranzato in aereo, arrosto freddo, cavolini di bruxelles, un pacchetto di cracker, un arancia un budino alla vaniglia un caffè che sembrava sciacquo di piatti.
Sono arrivata a Malpensa e avevo un peso enorme in mezzo al petto. Ho trovato ad aspettarmi mia sorella. Mia sorella. E’ strano pensare che la persona a cui vuoi più bene al mondo è davanti a te, e tu te le ricordi molto diversa, con i capelli corti tinti color ciliegia e la gonna corta e i tacchi, e ora è magra da far spavento, con i capelli lunghi corvini, i jeans sgualciti e le all-star.
Sono passati cinque anni eppure non è passato un solo minuto.
Ti voglio bene Annina, te ne voglio davvero.
Accetto ogni concorso di colpa.
In auto mi dice “ho detto alla mamma che arrivavi domani. Ora andiamo a farle una bella sorpresa.”
Entrare in Pavia è stato a dir poco scioccante. Era tutto familiare eppure così differente, così cambiato.
Siamo andate in studio, in centro. Abbiamo suonato e la porta si aperta come sempre, senza che nessuno chiedesse chi è. Siamo salite, un androne di un palazzo, millemila ricordi. Mia sorella entra, io aspetto.
Sento le loro voci. Mia madre le chiede se ci sono problemi, come mai è andata in studio. E lei le risponde che ha trovato una persona che voleva vederla. E mia madre le chiede chi.
Io entro.
Non lo so se si può definire lo stupore. O il tono con cui la suo voce ha detto semplicemente “Eleonora.”
Il mio nome. La sola parola che non volevo dicesse, eppure la sola parola per cui ho pianto.
Ci siamo sedute con lei e abbiamo parlato con calma, insomma, con quella che era possibile, Abbiamo chiamato il bar e ci siamo fatte portare il caffè, Gesù il caffè…
E dall’ufficio chiuso, quell’ufficio in cui ho studiato greco, in cui ho imparato a redigere i testamenti olografi, o i rogiti, quell’ufficio in cui ancora oggi saprei cercare tutto nei codici, è uscito lui. E non era calcolato.
E credo ci sia ancora tanto da dire sullo stupore.
Aveva in mano un atto e ha tirato su gli occhi e si è fermato. Potevo quasi sentire il suo cuore a mille.
Occhi negli occhi.
Mia madre si alza e gli dice “Eleonora è tornata a casa per Natale, ma io credevo arrivasse domani. Sono venute a trovarmi, lei e Anna.” Silenzio.
Occhi negli occhi.
“Avevi bisogno di qualcosa per la pratica X, Andrea?”
Gli lo ha dovuto chiedere due volte.
Io sono rimasta zitta. Ha parlato lui per primo.
Ma c’è tempo per le parole, c’è tempo per le spiegazioni, c’è tempo per andare oltre.
Ho chiamato a NYC sono arrivata sono viva sto bene stai tranquillo.
Ho ricevuto il mio primo sms italiano. Sto re imparando una lingua con un accento buffo che mi porto dietro. Vado a disfare i bagagli, mia sorella fra poco salirà, vorrà parlare come se si potesse in una notte recuperare anni. Chissà. Forse si può.
Respiro. Intanto faccio quello. E poi speriamo, e si vedrà.
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