“Pearl”: L’inizio e la fine di Janis Joplin

Creato il 22 settembre 2014 da Annalina55

Pearl-Columbia Records-1971

Un urlo. Una voce. Un lamento roco e disperato. L’agghiacciante intro di Cry Baby rivela tutto il tormento e l’angoscia di Janis Joplin, una delle più grandi blues-woman di tutti i tempi, e nel contempo rappresenta il folgorante attacco del suo primo ed unico album solista: Pearl, datato 1971. Dopo essere stata per anni la cantante del gruppo/comune Big Bother And The Olding Company (indimenticabile l’album Cheap Thrills del 1968 in cui è contenuta l’immortale Piece Of My Heart), l’artista texana decide di fare il definitivo salto di qualità e, con l’aiuto della Full Tilt Boogie Band, si chiude in studio a Los Angeles per incidere nove brani pieni di dolore e bellezza.

“Sul palco faccio l’amore con 25 mila persone. Poi torno a casa sola.” (Janis Joplin)

Chissà, forse avrà pensato di dare una svolta alla sua vita ed alla sua carriera mettendo “la testa a posto”, producendo un album pulito, sincero, curato, professionale, meno “hippie” ed improvvisato, ma le cattive abitudini, purtroppo, hanno preso il sopravvento. La morte improvvisa, a soli 27 anni nell’ottobre del 1970 per overdose di eroina a soli tre mesi dalla pubblicazione dell’album, ha trasformato Pearl nel testamento spirituale e nella definitiva consacrazione di un’ artista votata all’autodistruzione.

Janis Joplin

Dopotutto come non notare il taglio malinconico e dolente che la Joplin infonde in Me And Bobby McGee, una delle più belle composizioni di Kris Kristofferson, oppure la solitudine che pervade il gospel solitario di Mercedes Benz (cantata accompagnandosi col solo battito delle mani), la tenerezza di A Woman Left Lonely, la rabbia di Move Over o lo struggimento di My Baby. Pezzi “allegri” non ce ne sono ed anche quando sembra esserci un barlume di felicità, si riduce ad un sorriso tirato ed amaro che non basta a nascondere il vuoto dell’anima. A poco servono i buoni propositi o l’illusione di riuscire a cambiare il senso della propria vita; per un animo sensibile come quello di Janis Joplin basta un nonnulla per sprofondare di nuovo nella depressione. D’altronde la sensibilità ed il tormento tipico del blues che pervadevano la personalità della cantante non potevano essere cancellati con un colpo di spugna. Le sensazioni provate da Robert Johnson, Bessie Smith, Big Mama Thornton emergono per lo più intatte, a quasi mezzo secolo di distanza, dai solchi di questo disco. Inutile nascondere l’enorme influenza sulle cantanti negli anni a venire. Amy Winehouse, PJ Harvey, Sheryl Crow, hanno cercato di trarre dalla loro vita spunti blues che però poco o niente hanno a che vedere con l’autentico spirito del profondo sud americano che scorreva nelle vene della Joplin. Gli eccessi, le droghe, l’alcol, gli amori fugaci, persino quella sua immagine vagamente retrò, alla Calmity Jane, fanno tutti parte di un modo di essere autentico e per niente artefatto legato essenzialmente alla tradizione americana ed al contempo a quella fantastica stagione musical/culturale di fine anni 60. La vita non  le bastava, l’amore non le bastava. Il suo essere larger than life ha segnato la sua croce e la sua delizia tanto da portarla ad essere “Buried Alive In The Blues”


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