Peccioli: il paese dove politica, impresa e cultura creano Arte

Creato il 17 gennaio 2013 da Addamico @addamico

Per molte settimane dopo il mio incontro con Renzo Macelloni a Peccioli, in piena tormenta di acqua e vento, mi sono chiesta quale sensazione mi avesse trasmesso questo angolo di Toscana famoso per un originale mix di arte, natura e… rifiuti.

Peccioli ospita un impianto di smaltimento rifiuti tra i più all’avanguardia in Europa, gestito dal 1997 da Belvedere Spa, società che ha tra i suoi soci il Comune (64%) e 900 piccoli azionisti (36%), ma è anche il luogo dove il concetto di “museo a cielo aperto” prende una sua particolare forma.

Al profilo delle splendide colline toscane e delle preziose testimonianze storiche si affiancano tanti “indizi d’arte” che rendono l’arrivo in paese una sorta di ingresso in scena. A Peccioli, infatti, i rifiuti hanno portato profitti e, strano ma vero, investimenti in cultura, con risultati ancora oggi molto visibili (date un’occhiata al parcheggio multipiano!). Nel 2004, su decisione del Comune e di Belvedere Spa, è persino nata la Fondazione Peccioliper con il compito di occuparsi di cultura e arte per e sul territorio.

Per conoscere da vicino la ‘ricetta’ Peccioli ho incontrato il presidente di Belvedere Spa, nonché ex sindaco di Peccioli, Renzo Macelloni e la chiaccherata è stata molto interessante.

Sul sito di Belvedere SPA la sua firma compare sotto la frase: “Ci piace progettare, confrontarci, fare”; come si declina per la Fondazione questa dichiarazione programmatica?

Si tratta di due realtà diverse. In Belvedere questa dichiarazione funziona, per la Fondazione penso sia meno appropriato. Io lo considero uno slogan anticrisi che rispecchia il nostro desiderio di creare un rapporto dialettico con il territorio, sia sul piano economico sia su quello sociale. Oggi essere un amministratore vuol dire “contribuire” in maniera rilevante al proprio territorio. E lo si può fare solo con grande pragmaticità.

Fare un progetto è il punto di partenza, poi arriva il momento del confronto, per renderlo migliore, e quindi la realizzazione. Fuori da questo schema non c’è altro che impoverimento economico e culturale. Sono convinto che le aziende fanno cultura proprio quando interpretano e realizzano un progetto, così come la pubblica amministrazione.

Lei è stato sindaco di Peccioli per 16 anni e oggi gestisce un’azienda che si occupa di smaltimento di rifiuti. Ci racconta come è andata?

Io inizio a occuparmi di rifiuti casualmente. Da sindaco di Peccioli, mi ritrovo ad affrontare un’emergenza ambientale a cui era necessario dare una soluzione. Capisco che la cosa può diventare un business, ma non perdo mai di vista la priorità ambientale. La scelta è stata quella di avviare un progetto di ristrutturazione della discarica con due obiettivi precisi: la credibilità sul piano ambientale e il raggiungimento di una dimensione industriale che fosse economicamente sostenibile.

E’ stato un approccio laico e imprenditoriale che ha susciato critiche e polemiche, ma pesso inutili perché di tipo ideologico. Quando mi trovo di fronte associazioni che confondono le informazioni e non danno ai cittadini la facoltà di ragionare su temi che richiedono analisi più approfondite, penso sia giusto intervenire. Esprimere i propri gusti è legittimo, ma fornire informazioni corrette non è certo trascurabile.

Da amministratore ho imparato che le soluzioni nascono da un’analisi seria. Puoi affrontare un problema solo quando di questo problema hai una conoscenza chiara. Prima di essere saggi, bisogna dimostrare competenza e lungimiranza, altrimenti si finisce come con gli esodati, nessuno sa ancora quanti esattamente siano.

Nel 2004 il Comune di Peccioli e la Belvedere Spa creano la Fondazione Peccioliper con il compito di occuparsi di cultura e arte per e sul territorio. Quale è stata la scintilla che ha messo in moto il progetto?

Innanzitutto eravamo convinti che per fare determinate cose ci volesse un tipo di professionalità e flessibilità non facile da creare all’interno di un Comune oggi; inoltre volevamo dare uno strumento ad altre aziende per confezionare un prodotto culturale da utilizzare nella loro comunicazione potendo sfruttare, attraverso il sostegno alla Fondazione, un importante bonus fiscale.

Purtroppo la collaborazione con le aziende, a causa della crisi, sta attraversando una battuta di arresto. Ma la via è tracciata e siamo convinti che quando il territorio riprenderà a operare in termini produttivi, saremo pronti a ripartire. Non si tratta di beneficienza, quello che la Fondazione fa è offrire un servizio, e sono convinto che un’azienda oggi sia obbligata a intraprendere iniziative che vanno oltre il proprio core business.

La sua esperienza di amministratore pubblico ha influenzato il suo essere imprenditore?

Per 16 anni sono stato sindaco di Peccioli ed è stata un’esperienza fondamentale per imparare a gestire un’aziende come la Belvedere. Non faccio il sindaco all’interno della Belvedere, sia chiaro, ma ci sono punti di contatto tra l’esperienza di sindaco e quella di imprenditore. Io la definirei “una sensibilità di fondo” che all’interno dell’azienda considero una risorsa importante. Oggi un bravo manager deve rinnovarsi, essere in grado di cambiare prospettiva e soprattutto avere uno scenario in testa e saperlo proporre e condividere. Per uscire dalla crisi credo ci sia bisogno di molta più politica, e anche le aziende devono fare la loro parte. Quando manca la politica, ognuno la fa in proprio.

Perché spesso la cultura non ha fatto parte delle priorità dell’agenda politica nazionale?

E’ fuori di dubbio che tra cultura e politica ci debba essere uno scarto. La politica ha il compito di riflettere e fare, la cultura quello di indagare e trovare elementi di criticità e di rilanciare continuamente. Io lo considero uno scarto fruttuoso: l’una non può essere al servizio dell’altra. Sono compiti diversi, ma complemetari. Ed è dalla complemetarità che bisogna partire.

Io penso che gli operatori culturali e quanti operano nel settore della ricerca, gli scienziati in particolare, debbano avere il diritto di essere finanziati, anche su progetti considerati impossibili. Ma dovrebbero avere l’umiltà di capire che ci sono anche altri progetti che hanno bisogno di essere portati avanti, quotidianamente, e che spesso bisogna procedere in assenza di certezze.

Mi viene in mente il verso di una bellissima canzone: “ogni petalo è convinto di essere una rosa” [L'amore si odia di Noemi e Fiorella Mannoia]. Ecco, bisogna capire che una rosa è fatta di tanti petali: la ricerca è un petalo, così come la cultura è un altro petalo. Molto spesso parli con persona che sono un petalo, ma sono convinti di essere una rosa, un mazzo, e probabilmente anche un campo di fiori. Essere petali completi è già tanto!

Il 19 febbraio sulla Domenica del Sole 24 Ore è stato pubblicato il manifesto “Niente sviluppo, niente cultura” con il quale si intendeva sottolineare quanto l’investimento in cultura sia una leva fondamentale di sviluppo. Uno dei punti più dibattuti è stato quello del difficile rapporto pubblico-privato. Cosa ne pensa?

Le aziende hanno una dimensione e valore sociale importante, al di là della proprietà. L’impatto di un’impresa sulla comunità in cui opera è fondamentale, direi eclatante, e anche gli azionisti di riferimento devono saperlo. In un mondo globalizzato come quello attuale ogni azienda ha l’esigenza di un territorio amico. Anzi, direi che tutte le aziende sono un territorio. E credo sia arrivato il momento di mettere al bando le contrapposizioni ideologiche e superare la diffidenza nei confronti del mondo imprenditoriale. La considero una precondizione essenziale per instaurare un rapporto vero tra territorio e tessuto imprenditoriale.

C’è da dire che in Italia abbiamo sicuramente un problema ‘storico’ che riguarda il rapporto tra pubblico e privato e che ha dato vita a un patto al ribasso (lo Stato non sufficientemente efficiente ha concesso all’impresa di andare spesso oltre le “regole”). Io credo sia arrivato il momento di rilanciare questo patto attraverso un’azione decisa: per esempio, la pubblica amministrazione è un elemento fondante della società, penso che chi lavora nella PA debba guadagnare di più, ma certo non la pubblica amministrazione che abbiamo ora!

Sul versante impresa, invece, credo siano due gli elementi che le aziende dovrebbero aggiungere al loro carnet di responsabilità oggi come oggi: il rapporto con la cultura del territorio e quindi la valorizzazione del territorio (si può fare attraverso il recupero di un dipinto o di un vecchio edificio dove organizzare attività sociali e di animazione culturali per la comunità); e l’investimento in ricerca. Questo non significa sostituire o cancellare l’intervento dello Stato in questo settore, che personalmente considero ineliminabile. Anzi, una società più è complessa più ha bisogno di uno Stato forte, ma è importante discutere sui modi in cui lo Stato si fa garante di questo sviluppo.

Io, per esempio immagino un mondo in cui le proprietà possano essere più articolate, l’idea dell’azionariato popolare è interessante – la Belvedere con i suoi 900 piccoli azionisti  è un modello di partecipazione dei cittadini che considero una lezione sociale – anche se mi rendo conto non sia applicabile in ogni contesto.

Per Belvedere Spa, società pubblico privata (comune 64%, piccolo azionista 36%), che significato assume l’investimento in progetti di arte, cultura, musica?

Come Belvedere ho sentito subito l’esigenza di invertire il paradigma discarica = inquinamento = pattumiera. Non è vero. Una discarica ben gestita è una risorsa del territorio. Ma come potevamo dimostrarlo? Se fossimo andati  in giro per il mondo a presentare l’impianto non ci avrebbe ascoltato nessuno, e così abbiamo scelto un’altra strada, che non ha previsto il coinvolgimento di affermate agenzie di comunicazione.

Innanzitutto abbiamo curato bene l’impianto (la prima comunicazione!) e poi, nel 2007, abbiamo invitato il pianista Charles Rosen per un concerto di musica classica: ha suonato Chopin su un bellissimo pianoforte a gran coda collocato proprio in discarica. Ed è arrivato il Tg1.

E’ stato un modo di comunicare fuori dagli schemi che abbiamo adottato anche in seguito. Per esempio, ospitando una sfilata di moda di capi di cashmere – in quella occasione l’assessore all’ambiente della Regione Toscana, Anna Rita Bramerini, mi ha confessato che tutto si sarebbe aspettata, tranne di assistere, in veste ufficiale, a una sfilata di moda in una discarica. Abbiamo anche ospitato il premio Nobel per l’economia, il Prof. Dale Mortensen, e organizzato convegni, cene, assemblee dei soci. Per noi la discarica è un luogo da vivere.

Io ho imparato a considerare i rifiuti l’altra metà del cielo e spero lo capiscano anche molte altre persone. I rifiuti possono creare ricchezza: succede già in molti paesi nel mondo, mentre noi in Italia paghiamo per trasportare all’estero la nostra spazzatura. E’ possibile non si capisca che così non siamo padroni del nostro sviluppo? Che per esserlo dobbiamo farci carico di tutte le declinazioni dello sviluppo: dalla raccolta allo smaltimento dei rifiuti?

Belvedere e Fondazione Peccioiliper: come nascono le iniziative culturali? Quale metodologia di lavoro adottate?

Il punto di partenza è il contributo annuale di 350 mila euro. Devo dire che per alcune iniziative che organizziamo in discarica, facciamo da soli perché abbiamo la necessità di demarcare ed enfatizzare il marchio Belvedere. In questi casi il ruolo della Fondazione è strumentale. Poi ci sono i progetti di collaborazione più stretta come nel caso dell’esposizione de Il sacrificio di Isacco a lume di notte di Caravaggio nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Giusto a Legoli.

Come è nato il progetto dedicato a Caravaggio?

Nel 2011 avevamo organizzato l’iniziativa dei Caravaggini che, più che un’operazione artistica, voleva essere una provocazione [percorso  d'arte en plein air attraverso il centro storico con riproduzioni di opere a cura di Carav]. Poi un collezionista privato ci ha offerto gratuitamente il quadro di Caravaggio e, coprendo il costo dell’assicurazione, abbiamo iniziato a lavorare sul progetto espositivo. A quel punto la Fondazione ha avuto un ruolo importante per la realizzazione della mostra.

L’aver portato un quadro di Caravaggio nel territorio è stato importante, ma lo è stato di più averlo portato a Legoli, che è a 600 metri dalla discarica. Per la serata d’inaugurazione abbiamo organizzato un vernissage, non secondo il modello milanese ma pecciolese, e cioè con una cena per i quasi 400 ospiti e i cittadini di Legoli. E a cucinare sono state proprio le donne di Legoli. Siamo riusciti così a coinvolgere direttamente il territorio, andando a toccare le corde emotive di tante persone, anche della signora di 80 anni che ha preparato personalmente 100 bomboloni. Cosa c’entra Caravaggio con i bomboloni? Nulla! Ma è stato il modo di attivare energie. Il Caravaggio è diventato importante per dare senso all’impegno di una donna che ha vissuto un’esperienza importante e per lei indimenticabile.

E se si pensa che solo un anno e mezzo prima, come ospite indesiderato, ho partecipato a un incontro organizzato per contestare l’ampliamento della discarica proprio dai cittadini di Legoli! Ricordo di essere arrivato alle 21.30 e di esserne uscito alle 3.30. Non ho certo fatto cambiare idea a tutti, ma alla fine ho ricevuto tanti complimenti per aver difeso le mie idee e dimostrato la coerenza necessaria.

Presentando la mostra “La notte di Caravaggio” lei parla della possibilità di innescare “una vera e propria rivoluzione culturale del nostro territorio” attraverso il coinvolgimento della comunità in operazioni culturali come questa. La cultura diventa uno strumento politico?

Il problema di oggi è che chi ha ruoli pubblici è portato a nascondersi, mentre la gente vuole persone che si mettono in gioco, che agiscono concretamente, e credo che questo sia il ruolo dei partiti. I partiti sono strumenti fondamentali della democrazia, un diaframma importante tra la società e il governo delle cose. E la politica ha il grande ruolo di ascoltare, mettendo a punto il progetto che meglio risponde alle esigenze dei cittadini. Ed è questo che i partiti e, in termini diversi, le aziende devono fare.

La democrazia è un gioco complesso, serio e, soprattutto, la democrazia deve essere in grado di decidere. Paradossalmente è meglio una decisione sbagliata portata avanti, che tante decisioni bloccate; il bloccare tutto è la cultura del “non fare” e oggi non ce lo possiamo permettere. Abbiamo i paesi emergenti che premono su questa Europa che non è vecchia di età, ma rischia di essere vecchia di idee. Io non sogno certo la Cina, io voglio stare in Europa, ma in un’Europa che guarda al mondo che sta vivendo ora uno sviluppo incredibile.

Poche settimana fa abbiamo organizzato in azienda un corso di aggiornamento per i dipendenti della Belvedere, a cui hanno partecipato anche alcuni dipendenti della Fondazione e del Comune. Avevamo invitato il sociologo Domenico De Masi a parlare degli scenari mondiali da qui al 2020. Casualmente, all’incontro era presente un economista, professore di origine nepalese dell’università Carlo Cattaneo di Castellanza (e visiting professor di varie università all’estero), il prof. Dipak Pant, il quale è intervenuto  sostenendo che i dati di cui stavamo discutendo in realtà fossero sbagliati. ”Voi non capite che oggi c’è una pressione del mondo che questi dati non li considera affatto” ha affermato, “E io sono qui a dimostrarvelo, in questi momento io per voi rappresento un presagio”.

Naturalmente c’è stato un vivace scambio di opinioni tra De Masi e Pant, a cui abbiamo partecipato tutti con interesse, e quello che è stato chiaro, alla fine, è stata la forte tensione che oggi attraversa la nostra società. Il dato più rilevante non è più quello meramente economico, ma quello sociale che ha a che fare con la dimensione visionaria della politica. Oggi dobbiamo essere in grado di creare progettualità da una massa confusa e spesso indistinta di informazioni.

I futuri progetti culturali di Belvedere Spa?

Sono due. Il primo riguarda Legoli, che vorrei diventasse un luogo da visitare e vedere proprio in virtù della sua vicinanza alla discarica, così da ribaltare il solito paradigma negativo.

L’altro riguarda l’impianto della discarica, dove vorrei posizionare delle telecamere di alta definizione. Le telecamere diventerebbero uno strumento di controllo dell’impianto, ma anche un canale di trasmissione all’esterno delle immagini registrate in discarica.

Si tratta di un’operazione di trasparenza a cui vorrei dare una dimensione artistica. Mi piacerebbe infatti che queste immagini rappresentassero in tempo reale quello che avviene nell’impianto, ma attraverso la rielaborazione di un artista. Sono convinto che se trovo l’artista giusto (al momento ho scartato due idee che non mi convincevano) questo progetto possa arrivare al MOMA di New York. 

Ci racconta il suo primo incontro con la cultura?

A 11 anni ho cominciato a lavorare e non ho più smesso. Ho conseguito il diploma di scuola media, presentandomi da privatista (in realtà da seminarista perché non c’era altra possibilità) a 17 anni e subito dopo ho acquistato a rate la “Storia del mondo moderno” della Garzanti e la “Storia del pensiero filosofico e scientifico” di Ludovico Geymonat.

Leggevo, prendevo appunti, ma non lo facevo perché volevo diventare commercialista o cambiare lavoro. Ero operaio ed ero orgoglioso di esserlo, ma volevo capire cosa c’era intorno a me. Ho sempre pensato che finché un uomo ha il desiderio di capire il mondo che lo circonda rimane vivo e non invecchia. La tensione culturale, morale, e la creatività di pensiero sono le cose che nessuno potrà portarti via, neanche il tempo.

Come dargli torto… A questo punto ho capito che la sensazione che mi ha trasmesso Peccioli è di essere in un posto dove le cose, anche le più strane, possono accadere. Come l’arrivo di un certo Steven Spielberg o, perché no, di un novello Andy Wharol.

Vale la pena rimanere nei paraggi: le occasioni in calendario non mancano.


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