La vicenda umana e intellettuale di Pellico sin dagli albori dell’Ottocento è legata indissolubilmente a due riviste: “Biblioteca Italiana” e “Il Conciliatore”. Non si può certamente definire “La Biblioteca Italiana” un periodico di opposizione al governo della Lombardia pilotato da Vienna, ma è pur sempre vero che nella redazione di questo periodico, Pellico, trova i germi dei moti carbonari mediante un articolo di Madame de Stael che incitava le lettere italiane a svecchiarsi e guardare alla nuova Europa. Articolo che desterà i sospetti del governatore che di lì a poco decise la chiusura dello stesso periodico. Intanto nel settembre 1818 era nato “Il Conciliatore” dove confluirono tutti i collaboratori (fra cui Pellico) liberaleggianti della “Biblioteca”. Se la collaborazione dello scrittore a “La Biblioteca” fu tutto sommato “tranquilla” con articoli di sapore prettamente scientifico, artistico, culturale; ne “Il Conciliatore” Pellico fu da subito una delle firme più autorevoli e assidue sul versante “carbonaro” seppur per poco tempo: “Il Conciliatore” già nell’ottobre del 1819 doveva cessare le pubblicazioni dopo assidua censura (interessante il modo in cui gli uomini della rivista palesavano questa censura con colonne interamente in bianco a significare che quell’articolo non era gradito ai funzionari del governo). Pellico comunque si trovava in una situazione privilegiata dal momento che svolgeva le funzioni di precettore presso la famiglia Porro Lambertenghi, luogo che lo metteva in contatto con l’aristocrazia lombarda e soprattutto con il Foscolo modello letterario e ispiratore delle prime prove del Pellico. A Milano però Pellico fa l’incontro fondamentale della sua esistenza, subito dopo la chiusura de “Il Conciliatore”, con un carbonaro romagnolo Piero Maroncelli con cui condividerà molto del percorso patriottico.
Il 6 ottobre 1820 Maroncelli viene arrestato a Milano con addosso lettere compromettenti in cui vengono citati i nomi dei più importanti cospiratori fra cui Silvio Pellico che venne arrestato una settimana dopo, il 13 ottobre 1820. Al processo venne comminata la pena di morte sia per Pellico che per Maroncelli, pena di morte poi commutata a 20 anni di carcere duro con destinazione la fortezza morava dello Spielberg. Da questa esperienza Pellico dopo essere stato graziato nel 1830 e restituito assai malconcio alla famiglia, scrisse “Le mie prigioni” nel 1832, libro che Maroncelli ormai esule a Parigi fece tradurre l’anno seguente aggiungendovi le sue “Addizioni”. Fu sin dai primi giorni di carcere che Pellico passò rapidamente da una generica mentalità libera e non confessionale ad un esasperato cattolicesimo, infatti “Le mie prigioni” fu scritto su suggerimento della madre e del confessore di Pellico “allo scopo di dimostrare di quale conforto sia la religione nella sventura”. Come si può ben immaginare i risultati non furono entusiasmanti: ci furono persone come i cattolici reazionari che sospettarono della conversione di Pellico ritenendola insincera e strumentale, mentre i patrioti videro in questo testo una esplosione di conservatorismo intellettuale e soprattutto un tradimento delle idee liberali. In realtà come fa notare Canfora la conversione del Pellico avvenne in modo così fulminante nel breve volgere di una notte ed esattamente la stessa del suo arresto. Scrive Pellico “Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda (…) quello fu il primo momento che la religione trionfò nel mio cuore”. E’ questo il trauma, lo sgomento in cui si produce il crollo mentale di Pellico che lo porterà ad abbracciare la fede religiosa. Da questo momento in poi Pellico vede nella sua esperienza la sconfitta politica e la susseguente privazione della libertà personale; trauma che si risolverà nell’ancoraggio mistico dello scrittore.
Difficile poter giudicare l’esperienza del Pellico, certo si potrà asserire che al primo “inconveniente” egli non è preparato a porre resistenza e immediatamente si getta nelle braccia di un protettivo misticismo abbandonando immediatamente gli ardori carbonari; si può vedere ciò come una specie di tradimento e “Le mie prigioni” può assumere carattere di un vero e proprio manuale di autodifesa mentale del detenuto. Ed è questo, forse, come afferma Canfora il maggior pregio di questo testo.