«Mi caratterizzava sempre più una grande paura di tutto e di tutti e al tempo stesso una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e costruire». Scrive così, Peppino, in una sua breve biografia e risponde alla nostra domanda iniziale. Non poteva essere diversamente per un ragazzo che a diciassette anni rompe con il padre perché gli voleva imporre un modo di vivere che rispondeva a logiche mafiose. Il rifiuto portò Peppino all’allontanamento dalla famiglia e diede l’addio ad un’adolescenza senza affetto e sfuggita troppo in fretta. «Per giorni e giorni non parlavo con nessuno, poi ritornavo a gioire, a riproporre: vivevo in uno stato di incontrollabile schizofrenia».
Il suo impegno politico, all’inizio, fu la reazione ad un mondo che lo travolgeva, fu ricerca di punti di riferimento, di protezione. Peppino aveva paura, molta. Per qualche tempo il Psiup fu la sua casa, il suo rifugio, poi arrivarono le lotte studentesche del sessantotto. La sua irrequietezza lo portò ad attraversare molti dei movimenti di sinistra del tempo fino ad arrivare, nel 1973, a Lotta continua. Aveva trascorso lunghi mesi in cui l’alcol era il suo unico compagno. L’incontro con Mauro Rostagno gli diede la forza per reagire e un senso di sicurezza. Peppino torna alle battaglie per Cinisi, lotta con i contadini contro l’esproprio delle loro terre per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo. Qualche anno dopo si candida al consiglio comunale. Nel 1975 è tra gli organizzatori del circolo Musica e Cultura, che raccoglie intorno a sé molti dei giovani del paese. È da questo circolo che nasce Radio Aut nel 1977.
La radio ha un ruolo fondamentale nella sua vita, rilancia la sua voglia di lotta contro la mafia prima, e diventa la goccia che fa traboccare il vaso poi. Non è un mistero che la decisione di ucciderlo fu presa perché Peppino, con la sua radio, era diventato troppo pericoloso per i mafiosi della zona, ad affermarlo sono gli atti della Commissione parlamentare antimafia.
In radio conduceva Onda pazza, denunciava con tagliente ironia le collusioni tra mafia e politica e non risparmiava sprezzanti insulti quando servivano. Nasce così, da libero adattamento dantesco, la Cretina Commedia, dove Cinisi è come l’Inferno: un loco disgraziato, perché ogni poveretto che ci vive è bruttu, ruttu e co culu struppiatu. Nella Cretina commedia c’è la cerchia dei mangioni popolata da politici della Dc e c’è il girone dei rompiballe. Trasmettono anche Pig dei Pink floyd con in sottofondo i grugniti dei porci che comandano a Mafiopoli.
L’immagine del ragazzo ribelle, spavaldo, che prende in giro potenti e mafiosi stride con quella del giovane impaurito e tormentato. Ma Peppino era entrambi, era la coraggiosa voce che da Radio Aut accusava apertamente il boss Gaetano Badalamenti, chiamandolo Tano Seduto, ed era anche la mano che scriveva: vivo 110 giorni di continuo stato di angoscia e in preda alla più incredibile mania di persecuzione.
Sentire il fiato della mafia sul suo collo non gli avrà di certo fatto dormire sonni tranquilli. Lo immaginiamo alla fine di una delle sue trasmissioni, le cuffie sul tavolo e un respiro profondo: «e domani si ricomincia, si ci campamu». Lo vediamo uscire dalla radio, camminare da Terrasini fino a Cinisi voltandosi ad ogni rumore per la paura che qualcuno potesse aggredirlo. Ci pare di sentirla la sua paura.
Il 9 maggio del 1978 lo stordiscono a colpi di pietra, lo legano ai binari del treno e lo fanno saltare in aria. Non bastava ucciderlo, per fermarlo bisognava infangare la sua memoria, farlo credere un terrorista. Ci sono voluti ventitré anni, il lavoro degli amici, della famiglia e della magistratura, per restituirci la verità. Il 5 marzo 2001, Vito Palazzolo viene riconosciuto colpevole del suo omicidio e condannato a trent’anni di carcere. Un anno dopo, Gaetano Badalamenti, il mandante dell’assassinio, è stato condannato all’ergastolo. Ventitré anni per poter dire ufficialmente che Impastato è morto per mano mafiosa.
Peppino non si è fermato davanti a niente e nessuno. Né la paura, né i consigli di chi gli diceva di lasciar perdere o ti fanu fari na brutta fini, lo hanno fatto desistere. È andato fino in fondo, ha lottato finché ha potuto.
Forse abbiamo capito come c’è riuscito nonostante la paura. Peppino non era un eroe e per questo provava paura. In una delle sue poesie, Negghia, una fitta nebbia offusca la vista di un muro che ci nega il futuro. Peppino credeva che quel muro lo avremmo potuto abbattere, spingerlo giù con la forza di tante formiche infaticabili. Peppino non era un eroe ma un formica che è andata al di là di quella nebbia fino a quel muro, buttandone giù qualche pezzo. Crederlo un eroe ci fa comodo e ci assolve dal dovere di abbattere quel muro ca ni nega lu futuru. Non serve l’eroismo contro la mafia, ma la voglia di buttarla giù, comu furmichi senza abbentu.
Negghia
Paisi antichi comu lu tempu
fannu li vegghi a lu cori di la negghia
ma li pinseri vonnu passari
pi taliari se c’è un muru ca ni nega lu futuro
Comu furmichi senza abbentu
chi carriànu lu furmentu
ammuttamu sulu cu lui mani
suli trasi cu li mani
a negghia arrasi
Quannu spunta la matina
accarizzi l’acquazzina
e sta terra s’arrusbigghia
e addiventa meravigghia
Quanti pinseri hannu circatu lu cori di la negghia
quanti vrazza hannu pruvatu ad abbattiri stu muru
quantu cori…