Mentre gli indigeni digitali come me si crogiolano con il giustificativo alla mano – chi lavora nel digital deve essere un “animale social ad ogni costo”? – gli altri sono imprigionati dalla nuova tendenza che “la socializzazione” debba scendere allo sporco compromesso con il virtuale. Non siamo contenti del posto in cui ci troviamo e cerchiamo la fuga. Nei buoni propositi dell’anno nuovo mettiamo a capo lista l’impegno di ridurre il tempo da dedicare al totem touchscreen. Lo ripetiamo in mille salse, ma poi facciamo un buco nell’acqua. In fin dei conti “la piazza digitale” ci ha consegnato il superpotere più illusorio dell’epoca social: lo “sharing” del nostro piccolo mondo come pozione magica per essere ciò che nella realtà non riusciamo ad essere.
Lo storytelling nel più grande reality che sia mai stato visto sarà ancora la strada maestra che ci ostineremo a percorrere nel 2013? I guru del CES ci vedono come esseri bionici dall’anima “phablettizzati”; gli strizzacervelli ci mettono in guardia perché questa dipendenza ci condannerà a svuotare la nostra personalità per far spazio ad ansia e frenesia. E noi come ci vediamo? Il primo passo del cambiamento sarebbe schiacciare il bottone della nostra interiorità. Spegnere l’interruttore di uno smartphone non significa morire, ma riprenderci il vero superpotere che ci è stato donato dalla vita: accettare noi stessi con difetti e virtù, recuperando la bellezza di un legame vero – sentimentale, amichevole, familiare – e lottare perché resti testimone nella realtà del significato delle nostre esistenze.