Per l’Italia meglio la cura Argentina?

Creato il 24 luglio 2012 da Tabulerase

Molti economisti hanno proposto il modello argentino per superare la grande crisi del Paese. Un modello agli antipodi di quello varato da Monti. Il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz è uno tra questi. La ricetta era, in soldoni: no a politiche di austerità, incremento della spesa pubblica, ripristino della competitività partendo da una forte ristrutturazione del debito estero.

Ma fu vera gloria? Cerchiamo di capire meglio. 

Il fallimento del 2001 provocò la cancellazione dei debiti dei Tango-Bond, la rottura con l’Fmi e il blocco nelle banche di tutti i conti correnti prima di svalutare la moneta. Il popolo argentino ha provato sulla sua pelle la miseria più nera con la disoccupazione alle stelle e con il valore dei propri risparmi diventato spazzatura. Nestor Kirchner, che nel 2003 fu eletto presidente dopo le fallimentari ricette dei suoi predecessori, ha coraggiosamente reagito con una scossa inconsueta. Certo Kirchner non poteva tartassare gli argentini ormai nella miseria più nera, senza lavoro, senza risparmi e senza pensione. Doveva inventarsi un modo per crescere in fretta. Battendo liberamente moneta, cancellando il debito estero in dollari, aumentando le garanzie di lavoro e il welfare, rilanciando scuola e cultura e adottando politiche espansive irrituali. I risultati arrivarono negli anni, anche grazie alla forte svalutazione che favorì le esportazioni. Un modello imitabile? Non credo proprio.

Oggi l’inflazione è oltre il 20% e si sono imposte gigantesche tasse sull’esportazione per finanziare il deficit del Paese. Il benessere argentino dipende da Cina e Brasile e se quelle economie frenano (come sta succedendo) il paese va fuori strada. Sembra che la festa stia per finire. E i capitali fuggono altrove (Miami e paradisi fiscali caraibici) ad una velocità sconcertante. Ventimila milioni di dollari solo nel 2011. La cosa grave è che il governo argentino oggi nasconde i dati effettivi e bara sui risultati. Per questo l’Economist ha deciso di adottare le stime di PriceStats, un’organizzazione con sede negli Stati Uniti specialista in calcoli dell’inflazione, e ha detto di non poter scegliere un’altra fonte ufficiale argentina per il timore che il governo passi a mettere pressione anche su di essa. Il governo dichiara un’inflazione al 9% mentre quella reale è vicina al 23%. Questo spiega perché i salari nominali sono cresciuti nel 2011 del 25%. L’offerta di moneta sta esplodendo al solo fine ufficiale di produrre una crescita del Pil tra il 5 e il 7,5%, mentre quella reale nella migliore delle ipotesi stazionerà intorno al 3%.

La situazione è preoccupante anche perché il 40% della popolazione vive nella povertà e il 25% è indigente. La disoccupazione è al 22% e il 70% dei lavoratori è precario. L’analfabetismo è passato dal 2 al 12 per cento. Tutto questo è ancora più grave se si pensa che l’Argentina è ricchissima di materie prime e che il suo prodotto alimentare annuale basterebbe a sfamare per cinque anni un Paese come l’Italia. Il Nord fa letteralmente la fame. Nello Stato di Tucuman ampi strati della popolazione vivono in condizioni simili a quelli di alcuni Paesi dell’Africa sub-sahariana.

Siamo di fronte ad una realtà che, anziché essere nascosta, richiederebbe una analisi seria e adeguate reazioni di politica economica. Siamo di fronte ad una economia fortemente drogata dalla monetizzazione. E se non bastasse, il deficit pubblico ha rotto gli argini, non riesce più ad essere sottoscritto sul mercato e il governo costringe la banca centrale a farlo. Nel frattempo, i capitali tentano come ho detto di lasciare il paese e ci riescono pure, malgrado gli sforzi del governo.

Prima di abbracciare la ricetta argentina sarebbe opportuno fare una pausa di informazione e di riflessione.


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