Il volume è di peso anche perché si compone di almeno quattro libri tra loro collegati e complementari: 1) il romanzo della ricostruzione filologica delle Lettere storiche narrato dal suo artefice, Cecil Clough, romanzo comprensivo dell’officina linguistica e culturale di Luigi da Porto (1485-1529); 2) la cronistoria dell’edizione critica realizzata da Clough, riferita nei particolari dal curatore italiano del volume, Giovanni Pellizzari, le cui postille a piè di pagina, intelligenti e argute, integrano e talvolta rettificano le osservazioni più amene e tendenziose di Clough arricchendo gli apparati critici di un contraltare ironico; 3) il profilo biografico e intellettuale di Luigi da Porto in quanto autore delle Lettere storiche e protagonista attivo di alcuni episodi in esse narrati; 4) la storia della guerra della Lega di Cambrai (1509-1517) quale la si ricava dall’esposizione parziale e partigiana del da Porto.
Di questi quattro libri che si compenetrano e si confondono, il più intrigante è forse un quinto che facilmente si potrebbe localizzare, formato dalle corrispondenze e dai rispecchiamenti curiosi tra la personalità di Luigi da Porto e quella del suo interprete moderno.
Entrambi, da Porto e Clough, il capitano dei cavalleggeri al soldo della Serenissima e l’ex pilota della RAF votatosi agli studi umanistici, sono uomini che amano tornare indietro nel tempo. Lo fanno per osservare il passato e addirittura divenirne parte, ma anche per migliorare il proprio futuro.
La volontà del da Porto di guadagnarsi un posto nella vicenda della guerra tra Venezia e la Lega lo spinge a scrivere le Lettere storiche facendone un’opera per metà di testimonianza storica e per metà autobiografica e autoapologetica, in cui la statura dell’evento innalza il suo cronista e però anche viceversa.
Le rassomiglianze aumentano e si approfondiscono man mano che ci si addentra nel volume. La figura del da Porto risulta davvero un gradino intermedio tra il riserbo del letterato italiano del Rinascimento, per cui la letteratura resta un passatempo aristocratico e abbastanza solitario, in un contrasto spesso imbarazzante tra la brillantezza della personalità pubblica e la modestia delle opere pubblicate, e la ruminazione insoddisfatta e perenne dell’erudito e umanista Clough, per cui il proprio lavoro costituisce soprattutto un risarcimento dovuto, e con gli interessi, a una fetta di passato altrimenti destinata ad annegarvi.
Il Proemio al libro I delle Lettere storiche sembra effettivamente la trascrizione in toscano letterario del Cinquecento del credo personale e professionale di Cecil Clough:
“L’ingratitudine veramente fra tutti gl’altri vizi degl’uomini, che infiniti sono, è grandissimo; la cui villania tanto deva essere biasimata, quanto che sia da lodare il gentilissimo suo contrario; laonde ciascun uomo, al quale nei suoi giorni gran fatti di guerra venga veduto, nei quali, e l’animosità e la prudenza e l’ingegno s’adopra, mi pare che sia per il servizio dai passati ricevuto, molto obbligato di lasciarne ai posteri memoria, i quali passati le gran cose con tanta virtù dagli antichi operate, che altramente a noi sarebbono state nascoste, ci han col loro scrivere quasi sotto un bel cristallo lasciate dipinte, le quali mirando, e considerando, e più arditi e più saggi, e per loro esempio più alle virtù inclinati possiamo divenire. Io dunque per non restare di questa bruttura macchiato, ho voluto raccorre alcune lettere da me in spazio di alquanti anni, nella nostra comune lingua, e agl’amici d’intorno al fatto delle guerre del mio tempo, e del mio paese scritte; e per l’obbligo che ai passati si ha, del vano e del troppo quanto per me s’è potuto avendole scemate, lasciarle ai futuri.”
La struttura concatenata della frase daportiana, caratteristica dell’umanesimo italiano del XVI secolo, e così ossequiosa delle consuetudini espressive della tradizione letteraria da non farsi scrupoli nel mettere a dura prova la pazienza e la disponibilità di tempo dei posteri, riflette la tessitura organica del lavoro di Clough, per il quale “le gran cose dagli antichi operate” vanno sì tramandate “sotto un bel cristallo”, ma al fine di preservare, insieme col contenuto, il contenitore: perché il cristallo, infine, non è meno prezioso della gemma che custodisce.
Insomma, se a tratti sembra difficile stabilire chi, tra da Porto e Clough, sia il salvatore dell’uno e il salvato dall’altro, non c’è dubbio che la gratitudine del lettore è da estendere a entrambi, a da Porto non meno che a Clough, poiché le Lettere storiche, senza la storia avventurosa che le ha riportate alla luce, perdono una buona percentuale del loro pathos.
In tanto connubio di fedeltà documentaria e ambizione letteraria, di imperativi morali e motivazioni individuali e personalistiche, ecco servita al lettore, in un unico piatto, una tipica vicenda italiana ‘senza tempo’ vissuta e narrata da un personaggio altrettanto tipico dell’Italia non solo rinascimentale.
Luigi da Porto appartiene infatti a una famiglia patrizia molto ricca e molto ben collocata nel vicentino, che vanta legami con le più prestigiose famiglie veneziane e, per via di matrimonio, con le principali dinastie locali: i Thiene, i Nievo, i Sesso, i Trissino … Quella della Lega di Cambrai (sodalizio militare voluto da papa Giulio II per frenare l’espansionismo della Repubblica di Venezia, con adesioni da parte di mezza Europa e dell’Italia che contava) è per i da Porto una guerra condotta all’insegna del cerchiobottismo, intesa unicamente a salvaguardare le proprietà e i diritti feudali della famiglia.
Inizialmente filo-imperiali per insofferenza verso i Veneziani e la loro ingerenza negli affari d’entroterra, nel novembre del 1509 i da Porto stringono un’alleanza problematica e dilemmatica con la Repubblica di San Marco, tra incessanti fratture e dissidi interni. Lo stesso Luigi nasconde a fatica un sentimento di avversione nei confronti di Venezia, a fianco della quale si schiera.
Le sue velleità di affermazione personale non sono modeste ed emergono per affinità con i particolarismi e i cambi di fronte di una guerra che mantiene un tono e un andamento non certo da conflitto europeo, ma da faida municipale e amministrativa. Durante la guerra, osserva Clough, “a causa della sua posizione strategica e della sua intrinseca debolezza difensiva, Vicenza cambiò di mano qualcosa come ventiquattro volte in otto anni”, causando grovigli convulsi di confische e rivendicazioni feudali.
Tra i pregi del volume c’è un risvolto di copertina straordinario, che crediamo di pugno di Giovanni Pellizzari: un capolavoro di sintesi, precisione e partecipazione emotiva. Impossibile non riportarne almeno una parte:
“Nelle Lettere del da Porto si alternano e si fondono momenti di felice vitalità e drammi sanguinosi: le scaramucce fra cavalieri d’eccezione sotto gli occhi degli alti comandi veneziani, come in un teatro verde, a due passi da Verona; lo spettacolo, in Friuli, di un commilitone ungherese la cui calma e folle audacia strappa un applauso a Luigi, d’un tratto trasportato nel mondo fiabesco e stralunato delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi spagnoli; le imprese della maestrevole e sinistra cavalleria leggera albanese al servizio di Venezia; l’orrore ipnotico delle esecuzioni capitali con i loro rituali di degradazione; l’imboscata al chiaro di luna fatta, si direbbe, come una serenata alla sua donna, col buio finale che precede l’alba, e il ricordo dell’inno a Venere di Lucrezio (…). E poi, il buio improvviso della paralisi per una ferita alla gola rimediata da Luigi in uno scontro sul fronte friulano, la solitudine nella sua campagna di Montorso, o nel palazzo di Vicenza, e il sentimento del tempo, che gli fa riordinare, con le carte, il passato. Una vera recherche, che gli riporta davanti agli occhi i volti e le parole dei tanti compagni morti: a partire da quel suo zio, Antonio Savorgnan, figura paterna che poi tradì Venezia e finì tragicamente. Lettere dunque reinventate dopo vent’anni, e riscritte nello stile mutuato dal Bembo, il suo caro, più illustre e mondanissimo amico. Come dire: coscienza, kunstwollen di divenire un classico, scrittura ‘per i futuri’: per noi”.
Marco Cavalli
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 19 – Giugno 2014
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