Punto primo: come avrete notato, è da un po' che non aggiorno più regolarmente. Vuoi perchè di film ne sto vedendo veramente pochi ultimamente, vuoi perchè tra altri mille progetti i miei tempi si sono dilatati esponenzialmente. Punto secondo: ho voglia di essere cattivo perchè sono raffreddato e malaticcio, quindi oggi pubblico la recensione di un film mediocre. I film mediocri sono i peggiori: non sono ne carne ne pesce, non possono permettersi il lusso di far schifo e di sicuro non piacciono, insomma, vivono in un limbo cinematografico, persi per sempre nel dimenticatoio.Quindi ecco che recensisco Seta, un film che non ha nulla a che vedere con il piccolo gioiello da cui è tratto, il romanzo breve di Baricco.
Hervè Joncour, figlio del sindaco di Lavilledieu, si innamora e sposa Hèléne Fouquet. Abbandonate le aspirazioni militari si improvviserà commerciante di bachi da seta, spinto soprattutto dalle parole e delle idee dello strano Baldabiou (Alfred Molina), proprietario di tutte le filerie del paese.
Quando un'epidemia attaccherà i maggiori allevamenti europei e africani, Joncour sarà costretto a spingersi fin nello sconosciuto Giappone pur di procurarsi bachi da seta sani, ma di contrabbando.
Sarà proprio in Giappone che la vita del giovane Hervè verrà sconvolta perchè sarà lì che conoscerà Hara Key (Kôji Yakusho) e la sua conturbante geisha, di cui si invaghirà perdutamente.
Diretto dal semi sconosciuto François Girard, specializzato in documentari e con quella faccia da Dawson's Creek di Michael Pitt nel ruolo del protagonista, Seta è un lento e soporiforo prodotto perfettamente confezionato ma che nulla aggiunge (e che semmai toglie) al romanzo breve da cui è tratto ovvero Seta, di Alessandro Baricco. Baricco aveva un modo di scrivere avvolgente e naturale, ed era in grado di dosare ironia e poesia, amalgamando perfettamente le due cose a quel pizzico di erotismo che non guasta mai. Niente di tutto questo compare nel film, un freddo esercizio di stile che a quanto pare non ha nulla da dire.
Il film (prodotto da ben cinque Paesi, tra cui Italia, Francia e Giappone) è narrato in prima persona, e questa è una delle pochissime differenze formali nel passaggio da libro a pellicola. Un'altra differenza consiste in alcuni tagli: il libro non manca, ad un certo punto, di particolari più "spinti", di forte impatto sia dal punto di vista linguistico che discorsivo; nel film questi accenni sessuali sono stati traslati o, in parte, eliminati. Girard ha preferito l'eleganza e la formalità alla poesia e alla passione, precipitando in un vero e proprio baratro di stucchevolezza. Persino l'ironia viene messa a tacere, svilita da colori troppo scuri e da un'espressività repressa. L'unica cosa che il regista ottiene sono momenti di noia e di pura eleganza formale, che non bastano a reggere le sorti di un film dalla trama scarna e dalle interpretazioni altalentanti, evidentemente confezionato per essere il più vendibile possibile.Altra differenza è nello spazio maggiore concesso, nel corso della narrazione, ad Helene Joncourdi, interpretata dall'insopportabile Keira Knightley, puntando molto sul melodramma e sulla love story. Devota al marito più di quanto altre mogli riuscirebbero ad essere, è lei l'eroina della storia, a tal punto da diventarne la protagonista morale. Le fa da controaltare la bellissima Sei Ashina, nel ruolo della platonica (ma non troppo) "amante" giapponese del monoespressivo Pitt.
Se c'è qualcosa che si eleva da una mediocrità disarmante è sicuramente la fotografia di Alain Dostie e le scenografie di François Séguin, fuse perfettamente tra loro. Ad entrambi il merito di aver reso impeccabilmente la ricostruzione dei luoghi: la Francia e il Giappone di Seta colpiscono prepotentemente lo spettatore, lo seducono, veri protagonisti della storia. Quando la cinepresa si sposta poi sulla parte orientale di questo mondo di celluloide, allora si che lo spettatore rimane a bocca a perta e i soldi spesi per il biglietto acquistano un senso, seppure effimero. I costumi di Kazuko Kurosawa e Carlo Poggioli non sono da meno, e Ryuichi Sakamoto fa il resto con la sua musica, rendendo l'atmosfera, catturando i sensi. Peccato che tutto questo non basti a salvare la pellicola, che non riesca a rendere tutte le sensazioni e le tensioni che il soggetto portava con se.
I personaggi di contorno sono quasi tutti privi di fascino, ombre indefinite e vaporose, mentre il protagonista catarticamente ispira alla noia lo spettatore indifeso. Hervè Joncour, uomo pavido, irrisoluto, inconsapevole del mondo e delle meraviglie che lo popolano e chiuso nel proprio mondo interiore (metaforicamente rappresentato dalla casa e dal via via sempre più grande giardino), cresce e cambia man mano che i suoi occhi incontrano paesaggi e persone, massacri e povertà, desiderio e oblio. Pitt invece sembra un bambolotto in balia degli eventi, i suoi occhi e la sua espressività corporea non reggono l'eredità di un personaggio unico che rischia di confondersi e accomunarci alle ombre di cui sopra, e che solo nella commovente scena finale riesce ad emozionare. Per fortuna c'è Alfred Molina a tenere banco, conservando tutta la freschezza del suo personaggio e dando quel tocco di brio che sembra mancare a tutta la pellicola. Girard affermò di essersi attenuto il più fedelmente possibile alle pagine del romanzo, e che lo stesso Baricco aveva controllato il risultato delle riprese e seguì la lavorazione, dando anche qualche consiglio qua e là. Il risultato è un film sottotono, bello esteticamente ma senza spessore, vuoto: in pratica bello senz'anima. Di certo non rimarrà negli annali del cinema.