Dietro le spalle il deserto e prima la fame, la violenza, la guerra, la paura di una morte orribile, davanti il mare, un mare spesso calmo, un mare da vacanze, da spiagge e ombrelloni, quasi rassicurante e per attraversarlo ci sono navi che non sono navi, poco più che barche sulle quali stiparsi a centinaia pagando quel viaggio a caro prezzo.
Come si fa a non aver paura, ma la paura di quel mare e della traversata è niente in confronto alla paura di ciò che ci si lascia alle spalle.
E poi quel mare diventa una enorme bara, per molti, per troppi e noi ascoltiamo i numeri della strage, snocciolati dal telegiornale, magari seduti a tavola e, a poco a poco, quei numeri sempre più grandi ci fanno sempre meno impressione, ci facciamo l’abitudine, perché riusciamo ad abituarci persino all’orrore.
E poi i fiumi di parole che non possono fermare le partenze, perché la molla che spinge a partire è potente, non si arresta con le parole, con le invettive, con i decreti.
Probabilmente non esiste una soluzione immediata, non si ferma la disperazione, ma d’altra parte non è possibile accettare che le stragi continuino.
Forse bisognerebbe contrastare seriamente i mercanti di uomini e di speranza, magari aprendo degli uffici che si occupino dei rifugiati nei luoghi di imbarco e che si incarichino di indirizzarli nei vari paesi europei (mi sembra che sia giunta l’ora di assumersi, da parte di tutti i paesi, delle responsabilità) e poi lavorare per modificare la situazione politica dei paesi di origine: non si fugge dai paesi dove c’è un po’ di giustizia, un po’ di libertà, un po’ di dignità, un po’ di sicurezza, un po’ di pace.
Oppure possiamo continuare a parlare e rassegnarci alla conta dei morti.