Hanno trovato il modo di far sparire, oltre che il contratto nazionale, anche il salario. Basta adottare il «contratto di associazione in partecipazione», una formula complicata come tante adottate nel mondo del lavoro. Significa che tu lavoratrice o lavoratore non sei più, a parole, un «dipendente», ma un «indipendente», un «socio» del padrone, come se tu fossi al tavolo del consiglio di amministrazione aziendale. Quasi un piccolo Marchionne.
È il caso della bolognese Tamara Tasula, 35 anni. Posso farne il nome perché ha aperto una vertenza con l’impresa di cui era «socia» ed ora ha trovato un altro posto di lavoro a «tempo indeterminato». Tamara ha trascorso nove mesi prestando la sua opera presso un negozio di abbigliamento che fa parte di una importante catena estesa in tutta Italia. Qui c’erano due forme contrattuali: gli apprendisti e gli «associati» come lei. Così non prendeva uno stipendio bensì un anticipo, pari a mille euro al mese, sugli utili da calcolare a fine anno.
Come fosse un azionista. Tamara però non percepiva il piacere della «partecipazione». Non decideva nulla né per le ferie, né per gli orari, poteva essere licenziata a piacimento, rispettando solo un mese di preavviso. Non aveva tredicesima o quattordicesima. Non poteva metter bocca sugli investimenti da fare, per migliorare i prodotti e l’organizzazione del lavoro, per assicurare davvero i futuri utili. Tanto è vero che il bilancio del negozio segnalava a fine anno perdite, non utili.
Così Tamara ha deciso di lasciare l’impresa ed è andata dalla Cgil. C’è stato un tentativo di conciliazione ma nel foglio che volevano farle firmare (in cambio di duemila euro) doveva riconoscere la validità del «contratto associativo». Se avesse acconsentito l’impresa non le avrebbe più chiesto il pagamento delle perdite. Lei ha rifiutato. «Era un ricatto - dice - io volevo che loro riconoscessero che il mio era un contratto da dipendente». E ricorda che quando era entrata nel negozio le avevano assicurato che in ogni caso le perdite non sarebbero state a suo carico.
Una storia esemplare dei nostri tempi camuffati. Quante Tamare esistono in Italia? Moltissime, visto che queste modalità sono adottate anche in altri posti di lavoro, perfino nei bar. Oltretutto così l’imprenditore risparmia anche sui costi previdenziali. Ora Il Nidil Cgil (il sindacato dei lavoratori atipici) e la Filcams Cgil (commercio) hanno deciso di intraprendere una campagna tesa a denunciare queste forme di elusione del contratto nazionale. Roberto D'Andrea e Daria Banchieri hanno annunciato su Rassegna sindacale una campagna. Terranno una conferenza stampa e porteranno dei banchetti nei centri commerciali e nei centri storici, durante il fine settimana, per informare lavoratori e clienti, raccogliere segnalazioni. Non sarà una presenza facile. Non è come andare davanti a una fabbrica. E quelle ragazze, quei ragazzi, non hanno, spesso, l’audacia di Tamara. Eppure bisogna cominciare. Come agli albori del sindacalismo.