Per tutti quei bambini speciali caduti sulla Terra
Creato il 01 maggio 2013 da Lafenice
Ciao a tutti amici e buon primo di maggio!
Uno strano sole, piuttosto "annebbiato" splende sulla mia piccola casetta mentre quel piccolo serial killer che ho come coinquilina (non la conoscete? Ma è Luna, naturalmente!) corre per casa alla ricerca di qualcosa da buttare a terra.. Ah, no, scusate, aggiornamento dell'ultimo istante: è sul terrazzo che punta alcuni poveri uccellini (come volevasi dimostrare..).
Quest'oggi vorrei proporvi un articolo scritto da Kathy Lette, autrice de "Il bambino che cadde sulla terra" - Dalai, Marzo 2013, un articolo che mi ha colpito soprattutto per il tema trattato, quello dell'autismo.
Prima di leggere questo toccante articolo, però, diamo uno sguardo alla scheda libro.. vi va?
Kathy
Lette
Il
bambino che cadde sulla Terra
Da
quando il padre di Merlin, Jeremy, se n’è andato – subito dopo
la diagnosi di autismo – lasciando lei e il figlio, Lucy ha fatto
di Merlin il centro del suo mondo. Alle prese con le gioie e le
difficoltà di crescere un bambino eccentricamente adorabile, ma
impegnativo (se soltanto Merlin fosse arrivato con un manuale di
istruzioni!), Lucy non ha tempo per altri uomini nella propria vita,
perciò perché darsi la pena di cercarne uno?
Quando
Merlin compie dieci anni, Lucy comincia seriamente a preoccuparsi che
il Papa possa contattarla per chiederle suggerimenti in materia di
castità, perciò decide di rimettere piede (per quanto il pedicure
lasci a desiderare) nel mondo degli uomini. Ma a causa della
bizzarria di Merlin, le cose non vanno come aveva immaginato.
Tuttavia, proprio quando Lucy sta per rassegnarsi a una vita da
single, ecco che Archie – il più perfetto, per lei e per suo
figlio, degli uomini imperfetti – bussa alla sua porta. E lo stesso
fa Jeremy, pronto a implorare perdono e una seconda possibilità…
Di cosa ha bisogno Lucy? Di un vero padre per Merlin o di un compagno
affidabile per se stessa?
Crescere un figlio
affetto da una sindrome appartenente allo spettro autistico è come
mettere insieme un puzzle gigante senza nemmeno il beneficio della
figura sulla scatola. Non esiste un manuale delle istruzioni. È come
trovare un neonato ai piedi di un’astronave, portarlo a casa e
crescerlo come se fosse tuo figlio. So tutto questo perché a Julius,
mio figlio, fu diagnosticata una sindrome autistica all’età di tre
anni. Scioccata, rimasi seduta in silenzio in un tetro ospedale
vittoriano mentre un medico m’informava che il mio adorato bambino
soffriva di un disordine comportamentale. Ricordo la voce del
pediatra – il tono leggero e falsamente allegro – e fu in quel
momento che capii che la faccenda era veramente seria. Mio figlio
aveva iniziato a camminare e parlare precocemente. Era
incredibilmente vivace, persino più avanti per la sua età. Poi,
improvvisamente, a quattordici mesi, smise di parlare. Credevo si
trattasse semplicemente di un caso cronico di otite media sieromucosa
o di un’altra malattia di minore importanza, perciò il termine
«autismo» mi colpì come una pugnalata. Una diagnosi come questa ti
trascina nella corrente fino a farti sprofondare nelle tenebre più
profonde. Il medico aveva ridotto il mio splendido bimbo a un termine
asettico, in bianco e nero. Ma per me, il mio piccolo vibrava di
mille colori. Sentii un impeto d’amore sprigionarsi dalle viscere e
invadermi il cuore. Il mio bambino era diventato una pianta in una
stanza buia ed era compito mio riportarlo alla luce. Provai
incredulità, poi sgomento e, infine, l’amore protettivo di una
leonessa.
Negare è la normale
reazione dei genitori nella mia situazione, da qui gli anni di
terapie mediche alternative, arrancando in un labirinto di assistenti
sociali, terapisti della parola e occupazionali, e psicologi
pediatrici. Per anni ho girato ovunque, nell’infinita ricerca di
esperti. Mio figlio fu sottoposto a così tanti esami che deve aver
pensato di essere stato arruolato nel programma di addestramento
d’elite per le missioni sulla luna.
Tentai di tutto, dal
massaggio craniale alla cura del karma, passando per altre aree di
competenza scientifica basate su una dottrina medica rigorosamente e
metodologicamente provata da Goldie Hawn e altri accademici di fama.
Saltai da psicanalisti a professionisti del biofeedback, da nuove
correnti del voodoo ad altre folli discipline, finché al mio bambino
interiore non venne da vomitare. (Odio ripensare adesso a quanti
figli di medici ho finanziato l’università. Quando prenotate una
visita privata, assicuratevi di annotarvi dove avete parcheggiato
l’auto, perché sarete probabilmente costretti a venderla per
pagare la fattura astronomica.)
Poi arrivò il senso di
colpa. Quando a una madre viene detto che suo figlio ha dei bisogni
speciali, la sua ghiandola della colpa si mette a pulsare. È stato
qualcosa che ho mangiato durante la gravidanza? La crescenza? Il
sushi? Il bicchiere di vino che non avrei dovuto bere nell’ultimo
trimestre? È qualcosa che invece avrei dovuto bere, come il frullato
di barbabietola? Qualcosa che non ho mangiato? Forse del tofu
biologico? O forse mi sono rimpinzata troppo? Non mangiavo solo per
due, bensì per Pavarotti e la sua famiglia allargata… Se solo
avessi purificato la mia aura con il feng shui durante le lezioni di
yogalates (yoga+pilates) cantilenando al ritmo dei richiami delle
balene come Gwyneth Paltrow e gli altri fanatici del biologico.
Infine, molti, moltissimi
esperti, esami e scuole dopo, a mio figlio fu ri-diagnosticata la
sindrome di Asperger, che si trova all’estremità delle sindromi
meglio funzionanti dello spettro autistico. Non ho mai parlato
pubblicamente del mio meraviglioso e originale ragazzo. Ma due anni
fa iniziai a scrivere il mio undicesimo romanzo e, d’un tratto,
dalla mia penna cominciò a uscire la storia di una madre single che
si ritrova a crescere un figlio affetto dalla sindrome di Asperger.
Dato che Il ragazzo caduto sulla terra è una storia inventata
(mio marito è un uomo adorabile e di grande sostegno), non avevo
programmato di lasciar trapelare la mia esperienza personale. Avrei
semplicemente lasciato che il romanzo camminasse sulle proprie gambe…
Ma poi un giornalista mi domandò di punto in bianco se fosse vero
che mio figlio era affetto dalla sindrome di Asperger. Rimasi
sconcertata. Mentire avrebbe potuto implicare che mi sentissi in
imbarazzo per mio figlio, quando in realtà è tutto il contrario.
Sono straordinariamente orgogliosa di lui. Dato che oggi mio figlio
ha ventun anni, decisi di chiedergli la sua opinione. Jules adora il
romanzo ed è certo, parole sue, «che aiuterà le persone a essere
più comprensive e meno giudicanti». Spera che il libro incoraggi
l’accettazione di eccentricità, idiosincrasie e differenze. E che
mostri gli «aspergini» in tutta la loro peculiare, anti-conformista
e brillante gloria.
Non che vivere con un
figlio con la sindrome di Asperger non presenti le sue sfide. Gli
operatori sociali dicono a Lucy, la protagonista del mio romanzo, che
crescere un figlio con queste caratteristiche sarà un’impresa,
anche se eccitante… Questa affermazione va di pari passo con le
parole del capitano del Titanic quando informò i suoi passeggeri che
stavano per fare un piacevole tuffo in mare.
Per prima cosa, ci sono i
continui episodi di bullismo. I bambini con bisogni speciali vengono
spesso derisi perché diversi, picchiati oppure costretti a girare
con biglietti recitanti: «Dammi un calcio. Sono un ritardato».
Suscita forse meraviglia
che i genitori siano esageratamente protettivi? Il fatto è che
cercare di proteggere un bambino con la sindrome di Asperger è come
tentare d’impedire al ghiaccio di sciogliersi nel deserto. La cosa
più difficile da fare è smettere di tenerlo nella bambagia
permettendogli di crescere e di avventurarsi nel mondo brutto e
cattivo affollato di sconosciuti e pericoli. Per anni non ho permesso
a Jules di uscire di casa senza una lista di istruzioni lunga quanto
Guerra e pace e provviste sufficienti nello zaino per fondare
un insediamento nella giungla. (Lucy, la madre del mio romanzo, è
così protettiva che i suoi amici e parenti non riescono a credere
che abbia lasciato uscire suo figlio… dall’utero, s’intende.)
Anche l’istruzione è
un incubo costante. I bambini appartenenti allo spettro autistico
sono complessi. E ottenere aiuto è una vera e propria lotteria. Il
sistema è stato progettato con dei dossi burocratici di
rallentamento per frenare l’avanzamento di un genitore. Ma una cosa
è chiara: mettere un bambino con bisogni speciali in una scuola
tradizionale è inutile quanto far fare il bagno a un pesce. Gli
insegnanti superstressati ed esauriti delle scuole pubbliche trattano
spesso gli allievi con bisogni speciali come se fossero delle
creature rare e selvagge appena catturate nella giungla amazzonica e
ancora in fase di adattamento alla cattività. E come dargliene la
colpa? Allievi di questo tipo necessitano di specialisti che
insegnino in scuole particolari, che le amministrazioni comunali sono
riluttanti a finanziare. In città, scuola «tradizionale» significa
infilare il proprio figlio con la sindrome di Asperger in una classe
già sovraffollata, talvolta insieme ad altri quaranta ragazzini,
diversi dei quali non parlano inglese. Quando gli insegnanti non sono
alle prese con una conoscenza elementare di somalo, hindi, swahili,
rumeno, russo, tswana, arabo e, probabilmente, klingon, stanno
probabilmente cercando di far fronte a una varietà di bambini con
bisogni speciali oltre che ai loro inadeguati insegnanti di sostegno,
al punto di ritrovarsi in quarantaquattro all’interno di una stanza
minuscola. Lì dentro persino una sardina soffrirebbe di
claustrofobia.
Rimproverati perché
pigri, puniti perché disturbano, messi in castigo per non aver
capito come eseguire i compiti, non stupisce che, nonostante il loro
elevato QI, l’unica materia nella quale i bambini con la sindrome
di Asperger eccellano durante gli anni di scuola sia «telefonare per
darsi malati». In questo sarebbero da 10 e potrebbero diplomarsi in
scarsa autostima. La maggior parte dei bambini fatica a imparare la
matematica e la grammatica. I bambini con la sindrome di Asperger
lottano per rendersi invisibili.
L’unico modo per andare
avanti è affidarsi a un cupo senso dell’umorismo. Lucy, la mia
protagonista, afferma che la sua seconda esperienza preferita di
madre consiste nel parlare con gli insegnanti del progresso
scolastico di suo figlio… La prima è sbattere ripetutamente
l’alluce nell’aspirapolvere finché non incancrenisce.
Purtroppo, le liste di
attesa negli istituti speciali sono così lunghe che all’ingresso è
possibile imbattersi in famiglie dell’Età della Pietra, il che
implica un’infinita attività di persuasione e supplica presso le
autorità locali affinché assolvano gli obblighi stabiliti dalla
dichiarazione di bisogni speciali di tuo figlio. Ho riempito
un’intera foresta di formulari e incontrato squadroni di psicologi
educativi, la maggior parte dei quali, per vivere, ti guarda
dall’alto in basso. Il termine tecnico per definire questo processo
è «venir smistati da un posto all’altro».
E poi c’è l’isolamento
sociale. Il genitore di un bambino con bisogni speciali soffre di una
strisciante solitudine. Vedere i figli dei tuoi amici sbocciare,
prendere 10 a scuola, partire per le vacanze sugli sci e fare
esperienze di lavoro a «Vogue» o negli studi dei migliori avvocati,
è come morire di fame fuori dalla sala di un banchetto con gli aromi
più deliziosi che escono dalla finestra fino a farti impazzire.
Se solo esistesse un
manuale di auto-aiuto per i lebbrosi sociali. Come Lucy pian piano
scopre, la buca della sabbia nel parco giochi diventa una distesa di
sabbie mobili, in quanto gli altri genitori, temendo un contagio, ti
abbandonano in un silenzio obnubilante. «Un comportamento insolito è
spesso valutato dagli insegnanti e dai proprietari di esercizi
commerciali come una forma di cattiva educazione in famiglia,
sottolineata dal tagliente rimprovero che sei, naturalmente, “un
moccioso viziato”.» Troppo spesso i genitori di bambini con
bisogni speciali soffrono in silenzio.
Oltre che basato sulle
mie numerose esperienze, il romanzo prende anche spunto dalle vite di
tutti gli impavidi genitori che ho conosciuto, intrappolati in una
lotta annientante per ottenere la giusta istruzione e un sostegno
medico. Il genitore di un bambino con bisogni speciali deve essere il
suo rappresentante legale, e combattere per la sua educazione
dall’angolo di un ring; uno scienziato a tempo pieno, pronto a
mettere alla prova i medici e a fare domande sui farmaci; un
amministratore delegato, in grado di prendere delle difficili
decisioni per conto del figlio e, inoltre, una guardia del corpo e
buttafuori 24 ore su 24.
Ma se le infinite terapie
mediche ci hanno dilapidato e combattere la burocrazia scolastica è
stato estenuante, vivere con il mio delizioso e originale ragazzo è
stato anche fonte di tanta gioia e divertimento. Questo perché le
persone con la sindrome di Asperger, o «sindrome dell’Asparago»,
come la chiama lui, osservano la vita dall’altra estremità del
telescopio. Possiedono una logica letterale, laterale e tangente che
può essere disarmante in modo affascinante. «Che cos’è la
velocità del buio?» mi domandò una volta mio figlio. E «se nei
bar c’è l’happy hour, allora esiste anche un’ora triste?»
Oppure «un’arpa è un pianoforte nudo?» Non fa che pormi domande
alle quali non so rispondere come, per esempio, se sulla luna si può
giocare con lo yo-yo, perché gli uomini hanno i capezzoli e,
argomento più delicato, perché le nazioni fanno la guerra per
dimostrare ad altre che la guerra è sbagliata. A cinque anni mi
spiegò che il tempo non è nient’altro che il modo a disposizione
dell’Universo per fermare tutto d’un colpo. «E se Macbeth fosse
andato da un “dottore che parla”, non avrebbe ucciso Duncan.»
Quando una maestra dell’asilo gli chiese cosa volesse essere da
grande, lui rispose, secondo logica, «più alto». Poi le domandò a
sua volta se preferisse essere assorbente o traspirante. «Quando una
volta gli sussurrai che l’esponente politica che stavamo per
incontrare aveva “due facce”, mi chiese subito perché, se aveva
due facce, indossasse proprio quella, così vecchia e rugosa.»
Ma dietro questo pensiero
laterale possono nascondersi dei pericoli. Quando, all’età di
dodici anni, gli dissi di chiudere la porta a chiave perché non
entrassero i ladri a rubarmi i gioielli, per poi tornare a casa e
trovare l’ingresso socchiuso, mio figlio ribatté, perplesso: «Be’,
perché degli uomini dovrebbero volere dei gioielli?» «Quando parlo
delle mie forbici buone, per esempio: “Qualcuno ha visto le mie
forbici buone?”, lui pensa che ce ne siano anche di cattive, con
tendenze malvagie e omicide… Quando dico “Dovrai lottare per
avere l’ultimo cupcake”, lui si prepara a fare a pugni.»
E dubito che le sue
prospettive scolastiche fossero migliorate dopo che ebbe domandato al
suo temibile preside che colore di capelli avesse indicato sulla
patente, dato che era completamente calvo. Una simile franchezza
spesso mi fa sudare più di Paris Hilton alle prese con un sudoku.
Il momento peggiore fu
quando chiese a un motociclistica muscoloso e pieno di tatuaggi fermo
all’angolo della strada se avesse mai notato che il suo mento
assomigliava a dei testicoli capovolti. In momenti come questi la mia
unica tecnica di sopravvivenza consiste nel guardarmi intorno con
innocenza e ripetere a chiunque mi capiti vicino: «Chi è questo
bambino e perché mi chiama mamma?»
Come potete immaginare,
questo eccentrico candore è alla base di numerose situazioni sociali
comiche che ho cercato di descrivere nel libro. Fondamentalmente,
quando ci si ritrova a crescere un bambino con la sindrome di
Asperger, la cosa migliore è semplicemente legarsi in testa un
ammortizzatore di shock. Poiché le persone affette dalla sindrome di
Asperger non possiedono alcun filtro, esse dicono sempre quello che
pensano, il che significa che i loro genitori sono eternamente
costretti a camminare in punta di piedi su un campo sociale minato.
Non sai mai quando salterai per aria.
Per esempio, una sera
avevamo a cena una famosa star del cinema (ecco, non m’interessa
vincere la medaglia d’oro nella gara a chi la spara più grossa, ma
si trattava di Hugh Jackman) e mi ero abbandonata a un leggero flirt
australiano. Nella mia mente annebbiata già immaginavo entrambi che
lasciavamo i rispettivi consorti per poi fuggire ai Caraibi, quando
mio figlio, allora tredicenne, entrò nella stanza. Mi alzai subito
per abbracciarlo e baciarlo, buttando lì un commento casuale sul
fatto che gli stavano crescendo dei baffetti.
Mio figlio mi squadrò
come si deve, poi replicò: «Anche a te». Avrei potuto cuocermi
delle patatine fritte sulle guance. «Vedi tutti quei peli sul tuo
labbro superiore? Sono milioni. Ne hai un paio anche sul mento.»
Se solo avessi seguito
l’esempio di madre natura e mi fossi mangiata il cucciolo appena
nato, mi dissi, inorridita.
È risaputo che la
creatività sia associata a un certo numero di disordini cognitivi.
H.G. Wells era così strano da avere, a scuola, un unico amico.
Albert Einstein accettò un impiego in un ufficio brevetti perché
aveva un atteggiamento troppo antisociale per lavorare in
un’università. Isaac Newton era in grado di lavorare tre giorni di
fila senza interruzione, ma non sapeva sostenere una conversazione.
Gli studiosi ritengono oggi che Mozart, Van Gogh, Andy Warhol,
Orwell, Charles de Gaulle, Thomas Jefferson, Enoch Powell, e persino
il Mr Darcy di Jane Austen, così come molti famosi compositori e
artisti, appartenessero allo spettro autistico.
In Gran Bretagna ci sono
due milioni di bambini con bisogni speciali, cioè uno su cinque. Il
governo ha dichiarato di voler rimuovere almeno 170.000 bambini dal
registro di coloro che sono affetti da bisogni speciali. Ma come puoi
fare una cosa del genere quando questi bambini hanno dei
bisogni speciali?
Con questa valanga di
tagli, a rimetterci nella lotta per accaparrarsi i fondi sono i
bambini con disabilità meno gravi come la sindrome di Asperger o
l’autismo. Il loro handicap può essere meno evidente di quello di
chi si trova su una sedia a rotelle o si sposta con un bastone
bianco, ma anche loro hanno bisogno e meritano aiuto e la promessa di
una vita non sprecata a letto mantenuti dai sussidi.
La Giornata mondiale
dell’autismo, stabilita per il 2 di aprile, ci induce a riflettere
sul fatto che i tassi di povertà, divorzio, depressione e
disoccupazione sono molto più alti nelle famiglie con bambini
affetti da bisogni speciali.
Le persone con la
sindrome di Asperger possono non dare un contributo in termini
convenzionali, ma ciò non significa che siano individui di minor
valore e spetta a noi aiutarli a «sbocciare», iniziando con lo
sradicare il preconcetto che esclude coloro che hanno una disabilità
dalle normali attività della vita quotidiana. Non amo i termini
«normale» e «anormale» Preferisco «abituale» e «straordinario».
E questi bambini straordinari hanno così tanto da offrire, che è un
atto criminale dilapidare i loro innumerevoli talenti. Gli
specialisti, con i loro spray nasali all’oxitocina e il
ricollegamento del circuito neurale, prefigurano una «cura» contro
l’autismo entro i prossimi cinquant’anni. Ma così perderemo i
nostri geniali scienziati, gli artisti virtuosi e innovativi? Perché
non aiutarli semplicemente a sviluppare il loro pieno potenziale? Il
mio brillante e originale ragazzo è oggi un volontario di Oxfam e
sta seguendo un corso per diventare speaker radiofonico. Con la sua
enciclopedica conoscenza in materia di sport (è una sorta di
Wikipedia vivente), spera di diventare un giorno il commentatore
sportivo più bizzarro del mondo, se solo qualcuno gliene darà
l’opportunità. Con amore, sostegno e incoraggiamento, queste
persone uniche potranno mettere a frutto il loro incredibile
potenziale. Spero che il mio romanzo sia d’aiuto nel
de-stigmatizzare la condizione di chi soffre della sindrome di
Asperger promuovendo nel contempo tolleranza, comprensione e
accettazione. E che offra un po’ di buffa consolazione e un
necessario senso di appartenenza a quelle migliaia di genitori che
lottano per crescere dei bambini speciali. Perché tentare di farcela
da soli produce lo stesso risultato del voler affrontare Lord
Voldemort con un coltello da burro.
Le persone con la
sindrome di Asperger hanno spesso la sensazione di annegare nelle
proprie onde cerebrali. Mi auguro che questo libro, nel suo piccolo,
possa agire da gommone di salvataggio letterario.
Kathy Lette
Potrebbero interessarti anche :