L'affluenza fu quasi del 90%, una percentuale che se paragonata con quelle delle elezioni di oggi, fa riflettere.
Perché, a prescindere dalla vittoria della repubblica, quel voto in massa esprimeva la voglia degli italiani di partecipare, di dire la loro, forse per la prima volta, sulla questione pubblica.
Forse per la prima volta, ogni italiano contava qualcosa. Non solo se era ricco, se era maschio, se aveva un certo livello di istruzione.
Da quel voto, bisogna ripartire, se veramente si vuole cambiare questa repubblica che oggi appassiona sempre meno. Una repubblica, e le sue istituzioni, percepite come troppo lontane, come vessatorie (per le tasse, per gli adempimenti), come espressione di lobby e centri di potere che sono altro rispetto al parlamento.
Cosa fa il paese per me, ci si chiede? Per creare posti di lavoro, per far funzionare scuole e ospedali. Per far funzionare la macchina della giustizia e le macchine delle forze dell'ordine.
Non si può più rispondere in modo kennediano, ma tu cosa hai fatto per il tuo paese.
Per troppo tempo, paese e istituzioni marciavano separati.
Torniamo a quella voglia di esserci del 1946. Dopo le macerie della guerra, con lo spirito di cambiare e voltare pagina.
Gli italiani non andarono a votare per poi vedere gli appalti di Expo assegnati in deroga alle leggi. Le auto blu finite agli amici (come l'ex onorevole Papa) per essere invece negate a chi ne aveva bisogno (il prof. Biagi). Non bastano i moniti, le promesse, per ricucire quel rapporto coi territori e quelle fasce di popolazione, che si sentono altro dall'Italia.
Dalla Val di Susa, a Taranto, alla terra dei fuochi. E ci metto anche il nordest che all'improvviso si riscopre povero.
È forse l'ultima occasione per tenere insieme questo paese.
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