Un ringraziamento personale ad Alessandro Gilioli.
Quali sono le ragioni che spingono un giornalista ad aprire un blog?
Ognuno ha la sua, non credo che sia il caso di stabilire regole generali e onnivalenti. Personalmente ho aperto il blog nel 2005 per mostrare ai colleghi come si poteva fare un blog, dato che ero da poco arrivato all’Espresso e, come responsabile allora del sito, volevo invitare i colleghi ad aprirne uno loro. Insomma, nel mio caso è nato solo come nave scuola per stimolare gli altri, in redazione, a contribuire al sito con i loro contenuti. Poi dopo due o tre anni ho visto che fare il blog non solo mi divertiva e mi stimolava, ma soprattutto mi offriva un dialogo continuo che mi arricchiva, che mi insegnava delle cose. Così è andato avanti, e ora sta per compiere dieci anni. Ecco, se devo dire una ragione per cui vale la pena per un giornalista aprire un blog, forse è questa: perché nel dialogo e nella contaminazione ti insegna delle cose, quindi ti evita la torre d’avorio. Ma, ripeto, non pretendo che sia una regola onnivalente.
Il tuo blog è il proseguo del tuo lavoro o lo senti più come uno spazio privato?
Privato no di sicuro, ma nemmeno solo un pezzo di lavoro. E’ un dialogo, uno spazio per le discussioni che mi interessa fare e sui cui mi interessa confrontarmi, che poi spesso ricasca anche nel lavoro vero e proprio, quello per cui sono pagato dall’Espresso.
Se fosse esterno al portale de L’Espresso, ritieni che sarebbe identico nei contenuti ?
Sì, sarebbe praticamente identico tranne forse per qualche attenzione in più che, come giornalisti dell’Espresso, siamo un po’ tenuti a conservare. Devo riconoscere a tutti e tre i direttori che ho avuto una libertà d’espressione sul blog davvero totale.
Esiste un vademecum per i blog sull’Espresso?
Si è parlato di farlo, ai tempi di Hamaui, poi si è deciso di chiedere semplicemente a tutti i blogger buon senso, educazione e attenzione a non prendere querele: fine.
Articoli, post sul blog, post sui social network, richiedono linguaggi diversi?
Sì, per me sono tre linguaggi diversi. Sul cartaceo è ancora bandita la prima persona, così come l’invettiva e – soprattutto – l’eccesso di familiarità: anche se firmi tu, parli un po’ a nome di tutta la redazione e della direzione, insomma devi moderare la tua persona. Il blog è una via di mezzo, ci sei tu che parli con gli utenti-lettori, puoi permetterti un grado confidenziale maggiore, così come una personalizzazione maggiore, però sei sempre un pezzo di Espresso, quindi hai delle responsabilità. Sul social sei tu e basta, il giornale come tale non c’entra più, puoi permetterti anche un po’ di cazzeggio, una personalizzazione ancora maggiore, perfino un minimo di fatti tuoi. Pur ricordandosi sempre che sui social ciascuno di noi è in una conferenza stampa mondiale, quindi prima di cliccare su ‘pubblish’ bisogna comunque pensarci. Ma quest’ultimo accorgimento credo valga per chiunque, mica solo per i giornalisti.
Sul tuo profilo facebook sei molto attivo nelle conversazioni che nascono fra i lettori. Quanta parte di questa tua partecipazione “ritorna” nei tuoi articoli e post?
Sì beh, senza conversazione e senza contaminazione non si cresce e non si impara. Poi dopo tutto si mescola, specie tra social e blog.
Quanto è importante, da 1 a 10, l’ascolto delle opinioni degli internauti sugli argomenti che tratti?
Ci sono opinioni da zero (cioè che non mi stimolano niente nella zucca) e opinioni da dieci. Ma diciamo che leggere un’opinione da dieci varrebbe anche il prezzo di leggerne cento da zero.
Che consiglio daresti a un giornalista che, sino ad oggi, non ha ancora utilizzato i social nella sua vita professionale?
Ecco, allora diciamo che per un giornalista del 2015 non stare sui social è come per un giornalista del 1960 non avere il telefono in redazione.