Non solo il pubblico ma anche la critica, in maniera pressoché unanime, ha riservato all’opera prima un’accoglienza assai positiva. E meritatamente. Quello del trentaduenne regista salernitano, trasferitosi a Roma dopo aver realizzato il primo cortometraggio Iris Blu (2005) con Cristina Capotondi, è infatti uno dei debutti cinematografici più interessanti dell’anno. Anche se chi conosceva i suoi corti poteva ipotizzarne l’arrivo sul grande schermo (Oggi gira così del 2010 era un gioiellino di scrittura e tempi comici), Smetto quando voglio sorprende per la capacità di intrattenere lo spettatore con intelligenza attraverso una lunga serie di trovate esilaranti, senza mai perdere ritmo.
Solo il tempo ci dirà se dal fortunato caso di questo film – che racconta con piglio scanzonato le vicende di un gruppo di ricercatori precari intenti a sbarcare il lunario costituendo una banda di spacciatori di smart drugs – potrà nascere lo spazio per una nuova commedia italiana. Nell’attesa, noi di Fabrique salutiamo con entusiasmo questa operazione riuscita e coraggiosa, cercando di scoprirne di più proprio con l'autore Qual è la storia produttiva di Smetto quando voglio e come sei riuscito nell’impresa di farti finanziare il film da Domenico Procacci?
Nei primi mesi del 2011 con Matteo Rovere, che aveva prodotto Oggi girà così ed è stato poi anche coproduttore di Smetto quando voglio, sono andato da Procacci, il quale dopo aver visto Oggi gira così mi ha invitato a metter su un gruppo di scrittura. Io e Valerio Attanasio avevamo già scritto il soggetto e così, a partire dall’aprile del 2011, abbiamo iniziato a lavorare alla sceneggiatura insieme ad Andrea Garello. Anche se tuttora mi sento di vivere nel mondo del cinema con lo spirito dell’esploratore e inizialmente non avrei mai creduto che la cosa sarebbe davvero andata in porto, dopo la consegna della prima stesura a dicembre mi sono reso conto che le cose si stavano sviluppando in maniera positiva. Nel gennaio 2012 il film è stato calendarizzato e successivamente sono iniziati i contatti con Rai Cinema e il percorso per il finanziamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Hai trovato difficoltà nel passare dalla forma del cortometraggio a quella del film per il cinema? Da dove è nata e come hai sviluppato l’idea alla base di Smetto quando voglio?
In una primissima fase avevo in mente una serie di immagini legate a situazioni e personaggi che avrei poi voluto legare tra loro attraverso un filo narrativo. Ben presto però mi sono reso conto come questo metodo di lavoro, che avevo ampiamente utilizzato nei miei corti, non era proficuo per un lungometraggio. In questo caso era fondamentale capire subito di cosa e di chi volevo parlare, concentrandomi in seguito su alcuni personaggi e sul loro arco di trasformazione. Raggiunta questa consapevolezza, mi sono imbattuto in un articolo di giornale in cui venivano intervistati due netturbini di Roma che, nonostante fossero laureati in filosofia, erano contenti di quanto facevano. Ciò che mi colpiva era la loro serena rassegnazione. Siamo dunque partiti da questa suggestione andandoci a cercare altre storie simili (molte delle quali ci hanno più o meno direttamente ispirato per il film), per poi sviluppare intorno ad esse un mondo coerente e verosimile dove le persone più intelligenti vivono ai margini.
Quali sono stati i vostri modelli narrativi di riferimento? Inizialmente abbiamo fatto un elenco di alcuni film e serie televisive a cui volevamo ispirarci: ne facevano parte Limitless, Big Bang Theory, Snatch, Romanzo criminale e 21, dal quale abbiamo ripreso la struttura circolare. Nonostante la storia di Smetto quando voglio giri intorno all’elaborazione di una droga sintetica, tra i riferimenti non c’era Breaking Bad, di cui avevo sentito parlare ma che non avevo ancora visto. A un livello più inconscio e generale, credo poi di essere molto legato a un certo tipo di cinema americano degli anni ’80 e ’90 con cui sono cresciuto. Penso a film come Ritorno al futuro, Salto nel buio e Navigator, con quelle loro sceneggiature prive di sbavature.
Ancora oggi mi sento principalmente uno sceneggiatore, oltre che un intrattenitore. E la messa in scena la penso sempre come un qualcosa che deve essere funzionale alla storia. In Smetto quando voglio, così come nei miei corti, ho sempre cercato di evitare uno stile invasivo per non rischiare di scivolare nell’autocelebrazione e perdere di vista ciò che conta davvero: la storia e i personaggi. La regia in fondo non è altro che uno degli aspetti di un lavoro molto più ampio. Per quanto riguarda invece la fotografia, la volontà era quella di tradurre anche sul piano visivo l’idea di fare una commedia un po’ differente dal solito. Il colpo d’occhio oggi secondo me è fondamentale. La maggior parte degli spettatori ormai scelgono se andare a vedere o meno un film dopo aver guardato il trailer sul web. Volendo evitare la fotografia satura al punto giusto del cinema italiano e partendo dalla consapevolezza che preferivamo rischiare di sbagliare piuttosto che aderire ad una soluzione standard, ci siamo ispirati all’estetica ipersatura della serie inglese Utopia di Dennis Kelly.
Cosa stai facendo in questo momento? Puoi già dirci qualcosa sul tuo prossimo film?
Attualmente sto ancora seguendo Smetto quando voglio. Per tornare a scrivere ho sempre bisogno di sentirmi un po’ orfano. Ad un certo punto arriverà il momento in cui non mi vedrò più legato al mio primo film e inizierò a lavorare seriamente al nuovo. Comunque farò senz’altro un’altra commedia: l’idea è quella di concentrami su qualcosa di un po’ matto e che non sia banale. Spero di spiazzare il pubblico lasciandolo incredulo. In ogni caso, cercherò di seguire la strada più difficile, consapevole del fatto che per il secondo film, a differenza di quanto avvenuto con l’esordio, ci sarà una certa aspettativa da parte del pubblico. Che non voglio in alcun modo deludere. Articolo pubblicato nel numero 6 di Fabrique du Cinéma (Estate 2014)