A parole, praticamente chiunque occupi o abbia occupato una posizione di potere, in Italia, ha sempre sostenuto di operare per superare questo dualismo, estendendo, il più possibile, le garanzie. A parole…perchè nei fatti, invece, è accaduto esattamente il contrario: le tutele si sono sempre più assottigliate, con la progressiva restrizione del campo d'azione dell'Articolo 18, mentre si allargava, a macchia d'olio, il precariato.
La scusa è sempre stata ed è ancora la stessa: il mondo del lavoro italiano è troppo rigido ed elementi come lo Statuto dei Lavoratori impediscono il corretto sviluppo dell'occupazione. Niente di più falso. Il sistema italiano non è mai stato rigido, come certificato, in tempi non sospetti (primi anni duemila) dall'Ocse che, ricalcolando l'indice di protezione dei contratti (cioè, la percentuale numerica che indica quanto è garantito un contratto a tempo indeterminato), scoprì che Paesi come la Germania, la Svezia e l'Olanda, presunti modelli di flessibilità, avevano un indice di tutela più alto.
Per di più, in questi Paesi, l'indice è rimasto stabile negli ultimi anni, nonostante la crisi, mentre in Italia, una riforma del lavoro dopo l'altra, scendeva dal 2,76 dell'anno 2000 al 2,51 del 2013. La lotta di Renzi – e di chiunque l'ha preceduto, in questo campo – contro l'Articolo 18 si basa, quindi, su un presupposto sbagliato: il lavoro, nella Penisola, è sempre stato più flessibile, rispetto a quegli stessi Paesi, presi a modello dai fan della flexicurity. Partendo da queste basi, il disastro è assicurato.
La cancellazione definitiva dello Statuto dei Lavoratori – che, anzi, andrebbe adattato ed esteso – ed il nuovo contratto a tutele crescenti, infatti, non faranno che aumentare la precarietà, a causa della crescita della flessibilità in uscita, non esistendo alcun obbligo – e, dalle dichiarazioni di vari esponenti del Governo, mai esisterà -, per le imprese, di assumere un lavoratore al termine del periodo "senza garanzie".
Il vero problema del mercato del lavoro, invece, è la flessibilità in entrata, ovvero la difficoltà ad entrare (lo dimostra l'altissimo tasso di disoccupazione giovanile) o rientrare nel mondo del lavoro. Perchè è così difficile collocarsi/ricollocarsi nel nostro Paese?
Semplice, perchè le aziende italiane, nel bel mezzo della tempesta economica, per sopravvivere, hanno dovuto abbattere i costi, licenziando personale e riducendo al lumicino le assunzioni, se non addirittura, chiudendo gli stabilimenti e volando verso lidi più economici del Belpaese, causa carenze strutturali che nessuno cerca di risolvere: debito pubblico elevato, burocrazia farraginosa, tassazione asfissiante, corruzione dilagante, incomunicabilità scuola-lavoro.
In questi ultimi anni, anzichè affrontare questi problemi, che ci stanno tirando a fondo, la politica ha preferito, per comodità ed incapacità, puntare a riformare un settore che, invece, non aveva bisogno di nuove stravaganti alchimie, ma di liberarsi da questi pesi.
Ecco perchè fallirà il Jobs Act, come hanno fallito le precedenti riforme del lavoro, che non hanno fatto altro che creare precarietà, con in più l'aggravante del progressivo impoverimento dei lavoratori. Da anni, infatti, i salari italiani, causa instabilità del posto di lavoro, non riescono più a tenere il passo, con l'andamento del costo della vita, tanto che, ormai, siamo fanalino di coda, rispetto ai big dell'Unione Europea, per qualità degli stipendi.
Insomma, rischiamo di fare la fine della Spagna: il Governo iberico, da anni, persegue una politica del lavoro in tutto e per tutto simile a quella voluta da Renzi e dai suoi predecessori, con risultati, però, preoccupanti. E' vero che si è registrato un leggero aumento dell'occupazione (motivo per cui i sostenitori del Jobs Act la portano ad esempio), ma è anche vero che l'Ocse ha registrato un drastico calo delle retribuzioni, molte addirittura scese al limite della soglia di povertà.
E' questo il futuro che vogliamo?
Danilo