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Perché Gheddafi non fermava gli sbarchi e perchè non si possono mettere gli africani sotto il tappeto

Creato il 24 aprile 2015 da Catreporter79

gheddafi cat reporterLa tragedia dei 900 migranti annegati nel Mar Mediterraneo durante un viaggio della speranza, ha fatto tornare alla ribalta, presso il segmento socialista-massimalista e berlsuconiano della pubblica opinione italiana, la critica all’intervento occidentale che nel 2011 contribuì al rovesciamento del dittatore libico Mu’ammar Gheddafi, nell’ambito delle cosiddette “primavere arabe”.

L’accusa è, in buona sostanza, quella di aver eliminato l’unico argine all’emigrazione selvaggia dal continente africano. Tale impianto teorico riposa su un ventaglio di fraintendimenti, omissioni ed errori, dal punto di vista etico come strategico, politico e statistico, purtroppo condivisi anche dai settori più evoluti del giornalismo come della scienza geopoltica, nazionali come internazionali.

Vediamone alcuni:

-Le partenze dei barconi non hanno luogo soltanto dalla Libia ma da tutta l’Africa del Nord: Egitto (alla volta di Cipro), Tunisia (alla volta dell’Italia), Algeria, Marocco e Shahara Occidentale (tutti e tre alla volta della Spagna). Se ne deduce, pertanto, come la presenza gheddafiana costituisse un argine limitato e limitante.

-Secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno italiano, gli sbarchi nel nostro Paese furono 49.999 nel 1999, 26.817 nel 2000, 20.143 nel 2001, 23.719 nel 2002, 14.331 nel 2003, 13.635 nel 2004, 22.939 nel 2005, 22.016 nel 2006, 20.165 nel 2007, 36.951 nel 2009. Sarà utile evidenziare come, dopo gli accordi tra Roma e Tripoli (Gheddafi) in materia di emigrazione nel 2003, gli sbarchi avessero conosciuto dei picchi importanti rispetto alle medie precedenti. L’emigrazione era inoltre utilizzata dal dittatore come arma di ricatto nei confronti dell’Italia e dell’Europa, così da ottenere aiuti in termini economici. Se Pyongyang sceglie lo spauracchio nucleare per estorcere denaro a Seul e Washington, il colonnello ricorreva dunque agli esseri umani, ai loro drammi personali ed a quelli dei loro Paesi di origine.

Pensare che un regime dittatoriale possa fungere da soluzione ad un problema di simili proporzioni ed intensità, è dunque una “wishful thinking ” e, quel che è meno accettabile per un consorzio democratico, una misura pilatesca con la quale si pretende di mettere sotto il tappeto la tragedia di milioni di africani, lasciandoli nei loro stati di origine, sotto la minaccia continua della morte e della fame, in una situazione che vede anche la responsabilità storica (colonialismo) e presente (neocolonialismo) del mondo Occidentale.

Tradizionalmente ed inevitabilmente complesse e delicate, le fasi di passaggio dal totalitarismo alla democrazia presentano un bagaglio di criticità ancor più impegnativo quando il Paese in questione è di fatto sprovvisto di un bagaglio storico legato alla prassi liberale, come nel caso degli stati che hanno vissuto l’esperienza delle Primavere Arabe.

E’ dunque così anche per la Libia, che nonostante la conquista democratica subisce oggi la pressione di alcune frange estremistiche, di segno religioso come politico.

Il dato, tuttavia, non dovrà consentire alla semplificazione di rimuovere gli indubbi e straordinari risultati ottenuti a partire dal 2010-2011, non soltanto dalle popolazioni locali, oggi non più compresse nelle loro libertà da regimi dispotici ed illegittimi, ma anche dall’Occidente; la partnership con una democrazia ossequiosa del diritto internazionale è, infatti, sempre preferibile a quella con una dittatura, spesso irrazionale ed anticonvenzionale nelle sue mosse. Questo, non soltanto dal punto di vista politico ma anche economico.



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