Un eterosessuale non deve mai fare coming out. Beninteso, neanche un omosessuale deve, ma quest'ultimo è costretto a fare i conti con delle pulsioni che lo portano lontano dal mondo che definisce l'interlocutore (quando ti sposi? e figli non ne vuoi? guarda che poi invecchi...). Essendo data per scontata la pulsione eterosessuale, un dialogo sincero presuppone una rivelazione di diversità rispetto a quel modello.
Naturalmente è possibile una risposta del tipo "sono fatti miei" (ed è davvero così, la vita è sempre di chi la vive), ma la sofferenza che ingenera una narrativa in linea con le attese altrui è senz'altro enorme. È come se, fuori dal/la giovane omosessuale e dalla sua eco interiore, il mondo non facesse che raccontare e perciò confermare l'eterosessualità e lui/lei non riuscisse a raccapezzarcisi.
Il fatto che statisticamente il desiderio eterosessuale prevalga non significa nulla: nessuna altra differenza rispetto alla norma viene marcata in modo così significativo (quando non odioso). È anche vero che non esiste un mancini-pride, per esempio, nonostante l'industria normalmente ignori i sinistrorsi, però non ricordo che in quel caso esista una narrativa "di copertura": la loro rieducazione fino a non molto tempo fa era fatta di piccole torture quotidiane (per alcuni, a posteriori, anche utili).
Quello del raccontare e del raccontarsi è un punto fondamentale. Al gay pride ci si afferma, ci si espone, ci si mostra. Ben diverso è costruire una storia, poco alla volta, con se stessi e con l'interlocutore, nella quale il vissuto matura e prende forma poco alla volta. L'esplosione del corteo festoso è indipendente e spesso "altro" rispetto a questa scrittura della personalità (e non di rado è promosso da seguaci e simpatizzanti, più che dagli omosessuali in sé).
Quale potrà essere, invece, lo stimolo del giovanissimo eterosessuale a conoscersi sotto questo aspetto? Non c'è un negativo con il quale il suo desiderio deve confrontarsi, non c'è la spinta a un'analisi di massima in seguito alla percezione immediata della differenza. Le mille sfumature dell'eterosessualità dei coetanei entrano poco alla volta, per lo più pacificamente, nel suo immaginario e nella sua sensibilità.
Sentinelle in piedi e destra politica confermano questa civiltà dell'assedio in seguito al quale nasce il dirsi: e non è escluso che, nei più tenaci, ci sia anche la volontà di "stanare il nemico" con questo continuo pungolo, D'altra parte, fatta la tara della ricerca di consenso mediatico, sono convinto che al fondo della loro battaglia ci sia un rifiuto autentico e spontaneo.
Su questa "genuinità" si basa la mia idea di attivismo per i diritti delle persone LGBT. Non potrebbe essere altrimenti, perché un attivismo presuppone la buona fede sulle idee. E perché l'imbarazzo e il rifiuto delle argomentazioni altrui ("tanto con voi non si può discutere") è spesso reciproco e non porta proprio da nessuna parte. Una militanza non può consistere nel parlarsi addosso, nel mantra dell'autoconvincimento,
Non c'è attivismo (e un insegnante, come io sono, lo sa bene) che non si basi su una fiducia nell'altro, nella "controparte", sulla sua disponibilità ricettiva. Certo, esiste anche una naturale sordità e mi spiace ammettere che, a un certo punto, non c'è più nulla da fare. Eppure quest'impermeabilità deve essere uno stimolo, nonostante inevitabili momenti di sconforto: servirà perlomeno a calibrare il linguaggio, a focalizzare i punti nodali di una battaglia.
Per lungo tempo, guardando dal di fuori, con interesse, ma anche con perplessità, i vari gay pride e le manifestazioni a favore dei diritti delle persone LGBT, mi trovavo in disaccordo con la strategia e con una certa estrema pluralità di vedute, con quell'esuberanza che rendeva questi cortei piuttosto chiassosi ed estranei all'arcigna e indignata lady colonialista londinese alle cinque del pomeriggio che è in me.
Non c'è solo un aspetto emotivo, però, c'è anche una ragione precisa: pensavo che le richieste troppo audaci ingenerassero l'effetto contrario e sono tuttora convinto che procedere passo dopo passo dia risultati più concreti e più immediati di una battaglia per i massimi sistemi. Mi spingerei addirittura a pensare che per certuni puntare troppo in alto garantisca in qualche modo la sconfitta di una battaglia.
Se io voglio una vita, la voglio tutta intera. Il che non vuol dire che io condivida per forza tutti i valori, le considerazioni e le richieste dei movimenti omosessuali. Ma su una cosa sono incondizionatamente dalla parte di tutti questi gruppi e ne sono parte (tanto che torno a tesserarmi e a impegnarmi all'Arcigay): la difesa della libertà di ciascuno di essere fino in fondo ciò che si è, il rispetto dell'autodeterminazione, dell'identità come progetto di vita.
Tutto ciò è estremamente problematico in termini operativi e di riconoscimento sociale (l'accettazione del pluralismo trova oppositori fermi anche nella sinistra più convinta). Ma i problemi di una società sono fatti per essere risolti insieme. In via provvisoria, e come prima tappa di questo percorso, direi che essere militanti significa avere voce in questo dialogo.