Perché la scuola non serve più

Da Massimo Silvano Galli @msgdixit
E’ vero, il titolo è un po’ forte e, forse, nemmeno io ci credo veramente. Vi chiedo, però, di provare a seguire il mio ragionamento per capire meglio ciò che, con questa affermazione (provocazione) altisonante, intendo dire.
Secondo una stima dell'Unesco, nei prossimi decenni, i laureati sulla terra supereranno di gran lunga il totale di tutti coloro che si sono laureati dall'inizio della civiltà umana. Un numero esorbitante di pseudo-sapientoni per un limitato numero di opportunità lavorative ma anche, con gran probabilità, per opportunità lavorative che si riveleranno difformi alla preparazione di questi nuovi laureati.
Già ora possiamo constatare come il rapporto laurea/lavoro sia mutato. Infatti, fino a qualche decennio or sono, essere laurearti (in più o meno qualsivoglia facoltà) significava, quasi automaticamente, avere un lavoro. Oggi non è difficile constatare che non è più così.
Solo nello stretto giro dei corsisti che seguono le mie formazioni, è più che frequente trovare persone che hanno un gran numero di qualifiche ma che, in assenza di un’occupazione, stanno seguendo l’ennesimo corso. Questo perché, oggi, una normale laurea non basta, serve -di base- la specialistica e poi magari un dottorato e qualche master di rifinitura prima di poter ambire al tuo posto in qualche buon call-center.
In Italia, come al solito, le cose vanno peggio che altrove e solo una persona su dieci (1 su 10) finisce per lavorare nel settore per cui si era preparata durante il percorso di studi.
Cosa sta accadendo? Semplice: il mondo sta cambiando a una velocità che i sistemi educativi non sembrano riuscire ad eguagliare. Dovremmo ripensare radicalmente i nostri processi di apprendimento, ma l’unica cosa che riusciamo a fare è creare l’ennesimo corso di specializzazione affinché una nuova schiera di laureati sappia eseguire alla perfezione il ricciolo ondulato sul pelo nell'uovo.
Il problema, a mio e d'altri avviso, è che il vigente sistema educativo è figlio legittimo dell’illuminismo e da esso recupera i parametri di classificazione del sapere (tendenzialmente classico e enciclopedico), dell’intelligenza (tendenzialmente basata sul ragionamento deduttivo) e del problem-solver (tendenzialmente caratterizzato dalla necessità di comprendere prima di agire). Una visione che, con tutti i suoi diktat e i suoi paradigmi, sempre meno risponde alle esigenze della contemporaneità (come ho cercato di spiegare nell'articolo: "Perché studiamo come fossimo nell'Ottocento?").
Così, milioni di studenti, come mai prima d'ora, guardano all'esperienza scolastica come un'inutile perdita di tempo e -ahinoi- spesso hanno ragione.
Non si tratta di provare il piacere di andare a scuola, cosa che da sempre non pervade i giovani studenti, ma di sentire almeno il senso di questa fatica sì. È proprio la sensazione che andare a scuola sia insensato, ciò che invece è maturata. Non a caso in tutte le scuole del mondo civilizzato proliferano disagi di varia natura (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia, problemi di concentrazione, iperattivismo, problemi di relazione, incostanza, incapacità discorsiva, descrittiva, etc.) fino a ieri sconosciuti in questa quantità, le cui limitazioni si manifestano solo nelle strette mura degli edifici scolastici -e sarà domanda importante cui rispondere in questo blog: se l'insorgere di uno o più forme di malessere e difficoltà in un contesto deve portarci a mettere in discussione i soggetti che frequentano qual contesto o il contesto stesso.
Pensate, per fare un esempio, alla dicotomia tra un mondo sempre più interconnesso, in cui la conoscenza si sviluppa all'interno di quella che è stata definita "intelligenza collettiva", e il modello in uso nella scuola, dove il concetto di intelligenza è eminentemente soggettivo e così pure, tranne rare eccezioni, il processo di apprendimento -sia nella fase di input delle conoscenze, che nella fase di output e verifica delle stesse.
Pensate anche, per fare un altro esempio, al continuo richiamo (in ambito extrascolastico -of course) allo sviluppo delle abilità creative quali fondamentali strumenti per stare al passo con la società dell'iper-informazione e dell'iper-comunicazione in cui profitti, relazioni, eventi, ruotano sempre più all'interno di un universo immateriale in cui il protagonista non è più il soggetto passivo della società moderna, ma il soggetto attivo del post-moderno incarnato (ad esempio) nella figura del "prosumer": non -appunto- un passivo consumatore, ma un consumatore che partecipa attivamente al processo di creazione del prodotto che consuma.
E come non fantasticare, in questo senso, s'una similare utopica figura nella scuola: uno studente produttore e consumatore della conoscenza che attraversa -figura che le neuroscienze ci indicano come evolutiva rispetto all'attuale assimilazione passiva del sapere.
Questi ed altri esempi testimoniano il radicale scollamento della scuola dalla realtà che la circonda e sono il segnale della necessità di correre ai ripari trasformando totalmente gli attuali modelli di insegnamento e di apprendimento.
Quello che cerchiamo di fare nel nostro laboratorio di apprendimento efficace è provare a ridurre il gap tra la scuola e la contemporaneità, dotando gli studenti di un metodo di studio efficace che si avvale delle più recenti ricerche neuroscientifiche e delle tecnologie che abbiamo attualmente a disposizione e che la scuola purtroppo largamente ignora.