Ci torno di nuovo.
Qualcuno (non cattolici, ma militanti gay visibili e combattenti) mi dice che la battaglia sul matrimonio è una battaglia conservatrice. Che in fondo vogliamo lasciare l’eredità, vogliamo entrare in ospedale, vogliamo festeggiare in comune in mezzo agli amici e ai parenti e che come si chiama quella cosa che tiene insieme queste cose non importa.
Provo di nuovo a spiegarmi.
Quelli di cui sopra sono i problemi pratici di una coppia gay.
Di una coppia che abbia parenti serpenti. Che incontra medici antipatici.
Insomma il matrimonio o le unioni civili servono ad una minoranza della nostra comunità se proprio vogliamo andare a vedere. Siamo gay, sì, ma nel terzo millennio. Anche se siamo in controtendenza rispetto agli etero, comunque siamo figli di questo tempo liquido. Inafferrabili, disincantati. (capite la provocazione, vi prego).
Quello a cui serve davvero il matrimonio è il ragazzo di sedici anni che si sente diverso. Perché il matrimonio sancirebbe la sua eguaglianza con i suoi coetanei. Quelli a cui serve il matrimonio sono gli individui che possono così avere gli stessi gradi di libertà e dignità di tutti gli altri individui.
Il matrimonio è uno strumento arcaico in quanto tale. Non in quanto rivendicazione gay. Ma finché sarà il metro dell’uguaglianza, sarà battaglia giusta.
Vogliamo modificare lo strumento dell’unione civile per tutti? Ci sto. Non vedo l’ora. Lasciamolo alla religione questo gusto sacro dell’unione indiscutibile. Torniamo alla dimensione umana dell’affetto, alla sua difettosità meravigliosa. Recuperiamo il senso della genitorialità condivisa e desiderata e non “coscritta” e “costretta”.
Roba da pionieri.
Per ora, oggi, il matrimonio è l’asintoto dei diritti. E noi, nell’immanenza,tendiamo a questo. Siamo figli del nostro tempo. Non di altro. Siamo normali (non nel senso di normati, ma nel senso di attuali), insomma e, in quanto tali, ci meritiamo di essere uguali. Punto.