Siamo davvero sicuri che business e sport, se uniti, producono il male?
Nel mondo dello sci italiano in questi giorni è accaduto qualcosa. La famosa località Cortina d’Ampezzo si è candidata per la quarta volta ad ospitare i Campionati Mondiali di Sci nel 2019 ed è stata battuta, per un solo voto (9 a 8) dalla piccola località svedese, Are, che giá aveva ospitato i Mondiali nel 2007.
Il dibattito che si è aperto mi stimola a fare una riflessione, che prescinde lo sci, e investe le due grandi dimensioni: sport e business. Perché a leggere i commenti sull’esito di questa bocciatura, mi sono resa conto che tutti, pur dicendo cose opposte, sottendono una stessa lettura.
Vediamo in che senso.
Sport e business
Prendo due interpretazioni opposte.
Cortina2019 dice ha vinto il business, ha perso lo sport:
La rivista Race Ski Magazine dice ha vinto lo sport, hanno perso gli interessi politici:
Cioè uno dice che ha vinto lo sport, l’altro dice che lo sport ha perso.
Entrambi dicono che o è sport (cioè bene) o è business e politica (cioè male).
Come se lo sport, per potersi sviluppare non avesse bisogno di business e politica, come se lo sport fosse una bolla, estranea al nostro mondo, capace di autogenerarsi. Ma senza business non ci sarebbe sport. Business vuol dire attività economica. Ecco allora che senza attività economica gli atleti non potrebbero nemmeno procurarsi gli attrezzi per gareggiare e non troverebbero campi di gara.
Mega eventi si o no?
È un dato di fatto, tuttavia, che i grandi eventi sportivi sono ormai troppo spesso osteggiati. E si urla allo scandalo perché lo sport è tradito. Ma l’evento in sé non è un male, è come la televisione: dipende che uso ne faccio. O come una macchina: dipende da come la guido.
E la colpa non è del business, in quanto attività economica, né della politica, in quanto attività strategica e di governo.
Scrive Andrea Lucchetta su pagina99: “La politica ha sempre giustificato le spese legate ai grandi eventi sportivi con mirabolanti promesse di ricadute economiche. Il problema è che non ci sono prove a sostegno di questa tesi, a spulciare l’andamento delle economie.”
Io non sono totalmente d’accordo. Certo Atene 2004 è un pessimo esempio e temo lo sarà anche Brasile 2014, viste le premesse, e lo fu certamente Italia 90. Ma Barcellona 1992 fu un esempio di rilancio non solo di una città, ma di una nazione, democratica da meno di vent’anni. Germania 2006, quella del nostro Mondiale, è stata una straordinaria occasione per far conoscere al mondo una Germania amichevole, aperta e dinamica contro ogni pregiudizio figlio del secolo passato e il turismo è cresciuto, soprattutto quello culturale, secondo il National Brand Index. Dopo quei Mondiali il calcio europeo è cambiato, orientandosi ancora più al pubblico, allestendo un intrattenimento sano per gli appassionati di calcio. O ancora, Londra 2012: ha ristrutturato un pezzo di città, ci ha portato impianti sportivi, oggi sempre pieni di bambini, con lo scopo di riavvicinare la popolazione allo sport.
La colpa sta nel vino o nell’ubriaco?
Generalizzare allora è pericoloso perché ci impedisce di individuare le responsabilità. Viktor Frankl, nel suo bellissimo libro “L’uomo e il senso della vita” contesta l’idea di una responsabilità collettiva. La responsabilità è sempre individuale e se noi contestiamo gli eventi in senso assoluto, rechiamo danno allo sport, che tutti citiamo come dimensione salvifica e sempre tradita, ma anche ai paesi che volessero ospitarli. Ci sono mega eventi che hanno certamente migliorato le condizioni delle comunità. Non tutto è da buttare, dunque. E soprattutto i processi sommari ai mega eventi, o al business che attirano, non possono aiutare a migliorare. Ripeto: non è l’evento il problema, è semmai chi lo governa male.
Lucchetta ancora scrive: “Mondiali e Olimpiadi in altre parole si traducono in un trasferimento di risorse dai contribuenti a una serie di gruppi di interesse, sia interni che esterni al paese organizzatore.”
Purtroppo ciò è spesso vero e purtroppo ciò porta poi ai processi sommari. Sochi 2014, l’Olimpiade più cara in assoluto, è stata un business per pochissimi. Ma sta allora al CIO proteggere il suo brand ed evitare tutto ciò (ne ho parlato qui). E gli scandali intorno alla FIFA certamente non fanno bene.
Chiamala se vuoi … corruzione.
Però accade anche che la Sony giapponese ha chiesto chiarimenti sui Mondiali del Qatar, perché un’inchiesta del Sunday Times ha rivelato che sono stati pagati 5 milioni di dollari in mazzette per corrompere i delegati che hanno assegnato i mondiali agli arabi. Certamente la Sony vuole tutelare la propria immagine e dunque il proprio business. Ma mi pare un segnale forte e questo è importante.
Ma soprattutto ciò che è accaduto e che sta accadendo nel Qatar (sfruttamento di operai schiavi nei cantieri) non può essere usato come argomento per condannare il business legato allo sport in senso assoluto. Ciò che è accaduto nel Qatar è corruzione ed è illegalità.
Se in Italia la classe politica è incapace e inetta e lontana dalla realtà ciò non significa che la politica è un male, perché ciò che fanno quelle persone dentro i palazzi non è politica, anzi è un tradimento della politica.
La stessa cosa vale per il business e qui non posso non rimandare al più volte citato libro dentro questo blog: “Ho studiato economia e me ne pento” di Florence Nouville. L’economia non è un male, anzi è una disciplina al servizio della società, è l’uso che se ne fa che può essere dannoso. E di nuovo torniamo al tema della responsabilità. Business inteso come scambi economici per aumentare il valore é una cosa. La corruzione è qualcos’altro
E i mega eventi sportivi non sono un male. Diventano un male se sono solo strumenti speculativi per pochi. Se a gestirli sono persone disoneste. E non dico nemmeno manager disonesti, perché i fondamenti del management sono la responsabilità e l’etica. E dunque, come se ci fosse un giuramento di Ippocrate, queste persone non hanno solo violato la legge, ma hanno tradito i presupposti del proprio mestiere. Expo insegna.
Le parole giuste
Il mio allora è solo un invito: proviamo a usare la parola business nel suo senso positivo e a dire che non è il business a rovinare lo sport, ma lo sono la corruzione, l’illegalità, la speculazione oligarchica. E non dimentichiamoci mai: lo sport è di questo mondo e la corruzione è di questo mondo e pensare che lo sport, per il suo valore interno di lealtà, solo per questo possa essere immune dalle brutture, è molto naif. Anzi, proprio per questa sua bellezza, perché terribilmente attrattivo, dobbiamo sforzarci ancora di più per proteggerlo, .
Modelli virtuosi di sport e politica e business ce ne sono. Impariamo da loro.
O ascoltiamo i filosofi. Scrive Emanuele Isidori
«Se noi praticanti e spettatori sviluppassimo una sensibilità per la bellezza dello sport eticamente modellato sui suoi valori specifici interni quali l’equità, il rispetto, la giustizia e la meritocrazia, i problemi esterni quali il profitto e la mercificazione non ne eroderebbero i valori interni. Infatti il profitto e la mercificazione finirebbero per seguire questi valori, mettendo il business in linea con l’etica dello sport, raffinandone la pratica»
Infine mi concedo un ultimo comento sulla questione di Cortina: e non me ne vogliano i miei amici, ma se di business dobbiamo parlare, penso, che con la sconfitta di Cortina abbia perso proprio il business. Cortina è più attrattiva per investimenti di sponsor e Cortina, a differenza di Are, ha bisogno di infrastrutture e dunque il Mondiale avrebbe messo in moto un’economia importante sia in termini di posti di lavoro nell’indotto, sia come punto di partenza per un rilancio.
A Cortina secondo me ha perso il business nel senso di imprenditorialità e sviluppo, e dunque ha perso anche lo sport italiano che di questa imprenditorialità ha tanto bisogno.
Immagine: Ute Lennartz-Lembeck - B-Arbeiten – Utopia Street Art