«C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones…»
Quando mi affacciai al mondo del rock, la domanda era: Beatles o Rolling Stones? L’eterno dilemma, più di Hendrix o Clapton (che proprio non c’è storia), più di KTM o SWM, più di whisky o rum. Le due facce della luna: i solari e orecchiabili Beatles o i minacciosi e notturni Stones? Era una scelta di vita e il segnaposto di tutta una serie di gusti discografici. Chi rispondeva Beatles aveva in casa i dischi di Cat Stevens, Simon & Garfunkel, Nick Drake, King Crimson, CSN&Y e magari persino di John Denver. Quelli degli Stones possedevano i vinili di Lou Reed, Allman Brothers Band, Pink Floyd, Led Zeppelin e Traffic. Dylan era a metà strada: i beatlesiani possedevano Planet Waves, gli stoniani Highway 61.
Negli anni sessanta Beatles e Stones erano i campioni della British Invasion e della Swinging London di cui rappresentavano lo yin e lo yang. Innovativi, creativi, positivi e irresistibilmente simpatici i fab four, teppisti ed oscuri le cinque (o sei) pietre rotolanti.
I Beatles si erano fatti le ossa suonando notte dopo notte nella città portuale tedesca di Amburgo, per conquistarsi poi un pubblico locale al Cavern Club nella città natale, la grigia Liverpool: «Liverpool è molto triste il sabato sera, e siamo appena al giovedì mattina» (Ringo in Yellow Submarine).
Approdati a Londra, a Liverpool già erano una leggenda.
Quando nell’autunno del 1962 George Martin produsse il loro singolo Love Me Do, i teenager alla radio colsero immediatamente il cambio di marcia rispetto alla musica che avevano ascoltato fino a quel giorno. Il ritmo era urgente, tanto che sembrava voler precedere la melodia anziché seguirla passivamente, e dai cori sprizzava entusiasmo ed ottimismo. Il suono era essenziale e diretto, senza trucco e maquillage, ed i testi usavano il gergo della nuova generazione. Please Please Me confermò l’impatto della loro musica facendo il secondo posto, per raggiungere la vetta con From Me To You e She Loves You, il loro singolo più venduto di sempre in Inghilterra. I giornali coniarono il termine di Mersey Beat, dal nome del fiume che bagna Liverpool.
Era scoppiata la Beatlemania, descritta in modo buffo dal film A Hard Day's Night del ’64. Tutto quello che era venuto prima era superato. I Beatles costituirono gli ambasciatori della scena e la sua avanguardia fino al giorno dello scioglimento del gruppo alla fine del decennio.
In America la Capitol records non colse il potenziale del nuovo suono e per più di un anno non stampò neppure i loro dischi, fino a che nel dicembre del ’63 il disc jockey Carrol James della stazione radio WWDC di Washington iniziò a trasmettere I Want To Hold Your Hand suscitando il vivace interesse dei giovani ascoltatori, che si lamentavano che il disco non era nemmeno reperibile nei negozi. La quindicenne Marsha Albert scrisse al disc jockey chiedendo perché l’America non potesse avere quella musica. La Capitol si decise allora a stampare il singolo il 26 dicembre, ed in gennaio era già al primo posto delle classifiche, davanti ad ogni disco americano. Il 9 febbraio i Beatles apparirono alla TV americana all’Ed Sullivan Show, inchiodando davanti allo schermo 73 milioni di spettatori, la più larga audience televisiva mai registrata fino a quel momento. Fu il segnale di inizio della British Invasion. Le classifiche di vendita USA vennero occupate da Dusty Springfield, Animals (al primo posto con The House Of The Rising Sun), Manfred Mann, Dave Clark Five, Kinks e Them, rendendo dal giorno alla notte obsoleto il suono Duane Eddy, Mitch Ryder, Gary US Bonds, Del Shannon, Johnny Rivers, Everly Brothers e tutti gli altri yankee.
In contrasto al Mersey Beat, gli Stones nacquero invece come gruppo di British Blues. Brian Jones era un duro, un “ribelle senza una causa” che a 17 anni aveva già un figlio e a 22 anni ne aveva quattro da quattro ragazze diverse. Suonava la slide guitar come Robert Johnson, la ritmica come Bo Diddley e l’armonica come Little Walter. Fondò gli Stones con il pianista boogie Ian Stewart e trovò Jagger e Richards, due fan del blues elettrico della Chess di Chicago, sottoponendoli ad un’audizione. Il 12 luglio del 1962 per la loro prima esibizione al Marquee Club , gli Stones specificarono nell’annuncio sul Melody Maker: «siamo una blues band, non un gruppo rock».
Sulla sua biografia Apathy For The Devil, Nick Kent li descrive così: « I Rolling Stones non sorridevano mai, ed erano l’esatto opposto degli altri artisti in cartellone. La fronte non ce l’avevano. Solo capelli, labbra turgide, e un’insolenza collettiva senza limiti. Stavano indolenti sul palco, a osservare con un disprezzo raggelante la folla, mentre accordavano i loro strumenti » ed aggiunge «Brian Jones era esattamente il tipo di persona che avrei voluto diventare».
Il loro repertorio comprendeva i blues di Willie Dixon, Jimmy Reed, Bo Diddley, Slim Harpo, Chuck Berry, Ruphus Thomas, Bobby Womack, Muddy Waters. Fu il manager Andrew Loog Oldham a spingerli a scrivere materiale nuovo, ma soprattutto fu sua l’idea di creare con gli Stones un alter ego oscuro ai Beatles. Oldham era un produttore energico che ammirava lo stile di Phil Spector. La maggior parte dei gruppi che riuscì a raggiungere il successo negli anni sessanta poteva vantare produttori senza scrupoli dai modi spicci. Se pure un giorno molti di questi musicisti si accorsero che del denaro che guadagnavano era poco quello che entrava nelle loro tasche, è anche vero che forse non ce l’avrebbero fatta a raggiungere il successo senza un manager come fu Kit Lambert per gli Who, Peter Grant con i Led Zeppelin, Albert Grossman con Dylan, Brian Epstein con i Beatles (e Malcolm McLaren con i Sex Pistols).
Non fecero anticamera: il successo degli Stones fu istantaneo. Le star del rock inglese andavano a vederli suonare al Marquee Club. Mentre gli Stones erano alle prese con la registrazione del secondo singolo, i due beatle Lennon e McCartney passarono a salutarli in studio e Oldham colse la palla al balzo per chiedere loro una canzone. Paul e John si sedettero semplicemente in un angolo e cominciarono a provare degli accordi. John tirò fuori il titolo I Wanna Be Your Man e Paul inventò il riff. In pochi minuti avevano creato una canzone sotto gli occhi ammirati di Jones, Jagger e Richards. Il brano portò gli Stones ad un soffio dalla Top Ten (mentre i Beatles lo infilarono sul secondo album). Fu così che i Rolling Stones abbandonarono il british blues ortodosso e per tutti gli anni sessanta si misero a ruota dei Beatles - nonostante le loro canzoni non mancassero mai di una forte dose di oscura originalità. Una di queste fu il capolavoro di (I Can’t Get No) Satisfaction, la prima canzone di un gruppo di brit blues bianco ad essere registrato dai musicisti americani neri.
L’immagine dei Beatles del 1964 è immortalata nel film A Hard Day’s Night, quella dei giovani Stones del 1965 in Charly Is My Darling.
Mentre i Beatles cantavano “voglio stringerti la mano”, “non puoi comprare il mio amore”, “tutto quello che ti serve è amore” gli Stones dichiaravano “non riesco ad essere soddisfatto”, “scendi dalla mia nuvola”, “il diciannovesimo esaurimento nervoso”, “chi vuole le ragazze di ieri?”, “passiamo la notte assieme”.
Miss O’Dell aveva un invidiato lavoro come segretaria alla Apple Records. Faceva parte della famiglia dei Beatles, ebbe un flirt con Ringo e fu una buona amica di George, che le dedicò la canzone che porta il suo nome. Scrisse un libro di memorie che porta il suo nome, e quando racconta del tour che spese con gli Stones, quelli del ’72, i migliori di sempre, è evidente il passaggio di atmosfera dal peace & love dei Fab Four, agli oscuri meandri di sex & drugs degli Stones.
Mentre l’attitudine dei primi era «siamo gentili, sensibili e romantici», quella dei secondi era «siamo cinici e non ci importa».
Beatles e Dylan si influenzarono reciprocamente. Ascoltando The Freewheelin’ Bob Dylan nel 1963, Lennon e McCartney scoprirono che le canzoni potevano aspirare allo status di arte. Dal canto suo, ascoltando I Wanna Hold Your Hand nel corso di un viaggio iniziatico coast to coast, Dylan fermò l’auto per mettersi a ballare per strada. Al ritorno a New York acquistò la sua prima chitarra elettrica.
Il loro momento più beatlesiano, gli Stones lo raggiunsero nel corso della summer of love del ’67, quando risposero all’innovativo capolavoro di Sgt.Pepper con il confuso e psichedelico Their Satanic Majesties Request, che per quanto delirante conteneva She’s A Rainbow. Come 45 giri uscirono anche Ruby Tuesday e We Love You, tanto belle quanto beatlesiane. Fu l’ultimo atto della fase beat degli Stones. Brian Jones era stato relegato (o ci era arrivato da solo) ai bordi del gruppo, look e taglio dei capelli cambiarono, Oldham se ne andò per lasciare spazio al nuovo produttore Jimmy Miller e gli Stones inventarono il loro grande definitivo suono rock’n’roll con Jumpin' Jack Flash.
Per l’Italia i Beatles erano passati nel giugno 1965. Forse per emulazione, forse per curiosità, erano già tanti i fan ad attenderli, anche se non tutti gli show andarono esauriti. I più disorientati si rivelarono i giornalisti che, cercando di mettere in difficoltà i Fab Four, si dimostrano perfetti idioti ponendo domande come «Se vi accorgeste di perdere i capelli?», «Per quanto tempo prevedete di stare sulla cresta dell’onda?», «Ammirate Shakespeare?» («Certo, è inglese. Però lui non ha venduto tanti dischi»).
Fecero due concerti al Vigorelli a Milano, uno pomeridiano ed uno serale e solo il secondo andò tutto esaurito, in un package tour assieme a complessi “bit” locali. A Genova si presentarono pochi spettatori, evidentemente il rock era ancora da scoprire, ma George Harrison ne approfittò per fare il bagno di notte a Nervi. A Roma addirittura suonarono in un cinema che allo spettacolo del pomeriggio si era riempito solo a metà, ed il prezzo dei biglietti fu calato da settemila e duemila lire.
D’altra parte l’Italia di quegli anni era ancora estremamente provinciale, come dimostrano gli accostamenti scelti per le band supporter.
Arrivarono in situazioni analoghe anche i Byrds, quelli di Sweetheart Of The Rodeo, che non conosceva nessuno, figuriamoci poi la musica country quando qui impazzava ancora il liscio. Gli Stones arrivarono in Italia nel ’67, a Milano, Roma, Bologna e Genova. Fra il pubblico c’erano Fabio Treves ed Eugenio Finardi, che ricordano un’amplificazione Davoli insufficiente e Albano come supporter. Nel febbraio di quell’anno erano passati in Italia anche gli Who, al Palalido a Milano e al Piper a Roma.
C’è chi ricorda una vecchia chitarra con il manico attaccato con il nastro adesivo che venne passata sul palco a Townshend al momento del rito della distruzione finale. Al Piper Club di Roma suonarono nel ’68 anche i Pink Floyd al loro primo tour senza Syd Barrett. Pare che di tutti gli show italiani il migliore fu quello di Hendrix al teatro Brancaccio, anche se come al solito i quotidiani fecero gara a chi inventava il titolo più stupido o offensivo. Hendrix rimase particolarmente sconcertato dal tenore delle domande che gli venivano poste. La stampa musicale per la scena rock era ancora di là da venire.
In quei giorni io ero ancora un bambino. Quando li conobbi, i favolosi quattro si erano appena separati. In realtà lo avevano fatto all’apice della forma, come dimostrarono All Things Must Pass di George Harrison, John Lennon / Plastic Ono Band e Ringo (per un buon disco del Macca si dovette aspettare Band On The Run). Però sciogliendosi avevano perso la leadership culturale, musicale e generazionale che avevano tenuto saldamente per l’intero decennio. John cantava l’inno di Imagine (che sarebbe stata votata canzone del secolo da più di un pool di lettori) mentre George inneggiava My Sweet Lord, che erano successi grandi e dolcissimi, ma non erano più la bandiera segnaletica che indicava la direzione in cui soffiava il vento. Ringo all’inizio fu una sorpresa con la sequenza di hit di It Don’t Come Easy, Photograph, You’re Sixteen e Only You (due delle quali firmate da lui ma in realtà scritte da Harrison), tutti meritatamente numeri 1 in qualche parte del globo.
In un certo senso la canzone Let It Be segnò il mio imprinting musicale. Anche se fui sempre più un rocker da Stones che un figlio dei fiori, la melodia avvolgente di quella canzone mi instillò il gusto per le atmosfere del brit rock e del glam rock a venire. Sarei stato stregato per sempre dai grandi lenti. Il primo 45 giri che acquistai degli Stones fu Angie, un lento un po’ mieloso scritto da Keith Richards e che sono ancora convinto che eseguito da lui sarebbe un gran pezzo. Aveva una copertina conturbante con un volto dipinto su un corpo femminile nudo (gli occhi erano i seni e sulla pancia era disegnata la famosa bocca rossa).
Seguì l’effervescente Ain’t Too Proud To Beg, che era una cover dei Temptations messa sul primo album che acquistai del gruppo, It’s Only Rock and Roll. È solo rock’n’roll… ma mi piace. Con gli Stones camminai all’indietro come i gamberi lungo il percorso del loro mito. In Inghilterra ascoltai Brown Sugar e soprattutto rimasi ipnotizzato dal ritmo spezzato di Honky Tonk Women. Il giorno dopo quell’ascolto mistico acquistai Rolled Gold, un doppio vinile che si apriva con Come On (firmato da Chuck Berry) e si chiudeva con Sympathy For The Devil. Avrei scritto anni dopo per il Mucchio Selvaggio un pezzo in cui mi domandavo se tutto ciò che gli Stones avevano registrato dopo non fosse altro che una gran perdita di tempo (per l’ascoltatore). Lo scriveva anche Lester Bangs, che io non sapevo neanche esistere, ma poi mi pentii del mio ardire e scrissi un secondo articolo sui loro dischi degli anni settanta. Dopo Tattoo You fui però certo di aver ragione.
Vidi gli Stones in concerto solo una volta, l’11 luglio 1982 allo stadio olimpico di Torino quando Mick Jagger indossò la maglia della nazionale italiana di calcio, che quella sera avrebbe battuto la Germania per 3-2, come vaticinato sul palco dallo stesso Jagger. Era uno dei momenti peggiori per la band, vicina allo scioglimento, e il mio giudizio è testimoniato da Still Life, il disco registrato nel corso di quel tour. A differenza di quanto possono avervi sempre raccontato, i migliori album dal vivo degli Stones furono: Got Live If You Want It! (1966), di cui si è sempre detto con sufficienza, ma solo perché (a) chi ne scrive non lo ha mai ascoltato e (b) i giornalisti inglesi dell'epoca si offesero del fatto che il disco fosse pubblicato solo in USA. Quel long playing era la testimonianza dei concerti della band gutturale degli inizi ed il meglio dei Rolling Stones con Ian Stewart e Brian Jones.
Brussels Affair (nel 1973) fu il live definitivo della band, il rock'n'roll dei migliori Stones di sempre, quelli di Exile con Billy Preston e Mick Taylor. Dopo di che Taylor, che era disturbato da problemi personali e incapace di integrarsi umanamente nel gruppo, se ne andò per lasciarsi inghiottire dalla nebbia. Gli Stones dovettero reinventarsi una volta di più, sostituendolo con Ron Wood dei Faces. Fu una scelta difensiva che portò un po’ alla volta il gruppo a fare la parodia di sé stesso. Trovarono ancora l’energia per registrare Live In Texas 1978, a dimostrazione che Some Girls era stato il canto del cigno: un disco di rock molto compatto che sprizza energia da ogni solco, dove persino Ron Wood ha il suo perché.
Dei cinque il front man era Jagger, a parte i primissimi giorni di Brian Jones e Stu, ma i due Stones a riscuotere più simpatia furono sempre Keith Richards e Charlie Watts, che sono anche i due musicisti a cui più la band deve il proprio suono. Richards è un pirata che difficilmente non gira armato (è al suo aspetto ciondolante e minaccioso che Johnny Depp ispirò il personaggio del Capitan Sparrow), un duro dal cuore d’oro, mentre Charlie è mister eleganza in persona, tanto nel suo aplomb britannico che per l’eleganza con cui da ritmo ai tamburi. Bill Wyman, più vecchio dei compagni, fu sempre un mistero, un outsider un po’ estraneo fino al giorno in cui lasciò la band. Il pallido e smilzo pianista Nicky Hopkins fu negli anni migliori il settimo Stones (oltre che un Quicksilver, un Crazy Horse ed un sideman di Jerry Garcia).
I quattro Beatles furono più equilibrati, la prima band totalmente democratica del rock, e la personalità di ognuno di essi buca lo schermo ancora oggi che non sono più fra noi. Il Macca è quello carino, simpatico e gentile, quello che nel successo ci sta come un topo nel formaggio. John è l’intellettuale, lo scontroso, ma anche l’uomo dalle risposte salaci che non si lascia mai prendere in contropiede. I suoi occhialini tondi hanno donato l’aura di poeta a chiunque li indossasse negli anni della scuola. Ringo, quello buffo, l’amico più adulto che non prende le cose più sul serio di tanto e trova sempre un modo divertente di guardarle.
George è l’outsider, assetato di misticismo, lo schivo con un basso profilo che però registrò il disco migliore dopo i Beatles (All Things Must Pass), buon amico di Dylan (con cui condivise un gruppo) ed Eric Clapton (con cui condivise una moglie).
Musicalmente George è sempre stato il mio beatle preferito. Dopo che i Beatles erano diventati fuori moda, mi riavvicinai ad Harrison negli anni in cui ritrovò la forma registrando Cloud Nine con il produttore Jeff Lynne, che per un po’ rivestì i panni dell’ennesimo quinto beatle. Lynne produsse il singolo postumo dei Beatles Free As A Bird che John Lennon aveva registrato in casa nel 1977 ed a cui furono aggiunte nel 1995 le parti di George, Paul e Ringo. Intanto Harrison formava quasi per caso il supergruppo dei Travelin’ Wilsbury, assieme a Dylan, Tom Petty, Lynne e Roy Orbison, che per l’arco di due leggendari album, ma non arrivò mai a calcare il palco a causa della morte improvvisa di Orbison.
Nel nuovo millennio i Rolling Stones sono ancora in tour, e ad anni alterni riempiono gli stadi. Ma quello che il pubblico che li segue non sa è che questi non sono i veri Stones, perché quelli si sciolsero in qualche momento negli anni ottanta. Jagger era diventato un frequentatore dell’esclusiva discoteca Studio 54 di New York, dove fra l’altro conobbe la modella Jerry Hall, che sarebbe divenuta la sua seconda moglie. Il successo planetario del brano disco Miss You che Jagger aveva scritto per gli Stones, lo convinse di potersela giocare alla pari con Michael Jackson, l’idolo delle folle. Mentre registrava a Parigi l’album Undercover, si accorse che Richards, uscito da tunnel dell’eroina e tornato in forma, non gli avrebbe lasciato carta bianca nel progetto di fare degli Stones un gruppo disco. Dichiarò alla stampa che la band era ormai un “pietra” al suo piede, e si mise all’opera per registrare il disco solista, l’anemico She’s The Boss. Né Undercover né il disco solista ebbero il successo a cui la band era abituata, che usciva da una serie di otto numeri uno consecutivi in classifica. Il successivo Primitive Cool di Jagger fece meno bene ancora, mentre il cantante si presentava in studio a cantare per Dirty Work degli Stones separatamente dal resto della band. Richards mise allora assieme un suo gruppo, gli X-Pensive Winos (un gioco di parole fra vini costosi e vagabondi ubriachi) per registrare l’ottimo Talk Is Cheap, ma neanche quello fu accolto a braccia aperte dalle classifiche. Erano gli Stones che il pubblico voleva, e le due star erano troppo assuefatte al successo ed alle sue comodità per rinunciarci. Perciò da allora portano in tour sempre più spettacolari lo show della band principale, dando alla gente esattamente quello che vuole: lo spettacolo dei Rolling Stones.
A casa non possiedo un TV ma la musica è sempre accesa, e così pure in auto, così che mia figlia è cresciuta ascoltando dischi. Verso i sei anni si appassionò alla versione di Ringo di Yellow Submarine, che ascoltava in continuazione con quella folle costanza che solo i bambini posseggono. Ai nove scoprì i fab four, e la mia gioia di padre fu completa quando ad un questionario a scuola rispose che i Beatles sono il suo gruppo preferito (canzone preferita Help. Ci sono probabilità che l’insegnante non la conosca). Anche per lei, nata nel nuovo millennio, Paul e Ringo sono i preferiti. Una sera mi fece registrare un radio broadcast in cui metteva e commentava le canzoni di Beatles, Stones e Who. È il DNA, bellezza.
(tratto dal libro Perché non lo facciamo per la strada? - un decalogo del Rock di Blue Bottazzi)
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