Perché non lo facciamo per la strada? La recensione di Route 61

Creato il 03 gennaio 2015 da Zambo

« Il secondo sforzo creativo del buon Bottazzi (giacchè per il primo, “Long Playing”, che sta per avere un gemellino, un lato B, aprirò presto una parentesi a parte, a opera conclusa) mi fa venire in mente un disco che amo molto, di Andrew Gold, un session man californiano di cui troverete il nome in un sacco di dischi di west coast anni '70, quelli di Linda Ronstadt compresi. L'album in questione è “What's wrong with this picture?”, che girava su vinile Asylum, roba seria, roba con un significato. Cosa c'era di strano nella copertina? La giravi e la rigiravi ed è era tutto a posto, apparentemente. Alla fine, guardando meglio, ti accorgevi che nel grande soggiorno le cui vetrate davano forse sul mare di Santa Barbara un paio di oggetti erano fuori posto: un 45 giri suonava (suonava?) agganciato a un registratore Revox, e la bobina di quest'ultimo era adagiata, inutilmente, sul piatto di un giradischi.
Quella confusione voluta, e annunciata, a me ha sempre fatto pensare che il significato fosse “la musica trova sempre una sua strada, anche se gli metti qualche bastone tra le ruote, anche se sposti qualcosa”.
Sulla copertina del bel libro di Bottazzi, che si fa chiamare Blue per via di Tom Waits e Rickie Lee Jones, ma questa è un'altra storia, non c'é niente che non va. Funziona tutto a meraviglia. Molte cose coincidono con l'iconografia del rock, a volerle leggere. Una coppia (lui ed Eleonora Bagarotti, altra anima piena di musica) come erano Tom & Rickie su “Blue Valentine”, altro disco etichettato Asylum. Giubbotti di pelle, il serbatoio di una moto che si intravvede, la t-shirt bianca che recita, in rosso amore, Triumph, come la Bonneville con cui nel 1966 Bobby Dylan scivolò per un po' via dalla musica facendosi male seriamente.
Nel background, mugs, insegne, forse ferri da lavoro. Per due, quattro ruote, mille sogni.
Una coppia innamorata che inneggia all'amplesso sull'asfalto? Non proprio. Qui c'è un'altra citazione, una canzone (quella del titolo del libro) che arriva dal doppio bianco dei Beatles, voce di un McCartney votato a un blues alla Steppenwolf. Non i Beatles più popolari, di certo i più intensi e sporchi.
Le 250 pagine raccolgono in 33 capitoli e 33 decaloghi un bel po' di sensazioni sparse vergate da chi si sente e si descrive “salvato dal rock'n'roll”. Sinceri, senza retorica, dunque veri sono gli appunti del Blue. La confusione regna sovrana, come nella stanza di Andrew Gold. Ma da quella confusione il lettore, se motivato, si lascia trasportare con piacere e sicurezza, come fossero i copertoni di una inglese mid Sixties a incollarti alla strada.
Non aspettatevi una recensione, dovete leggervelo voi il libro. Io ho preso appunti sparsi, perché così leggo ormai i libri, tutti i libri, andandomi a cercare ciò che mi soddisfa in quel momento, per poi tornare giorni dopo, a curiosare e ascoltare. Si, ascoltare, perché che le abbiate in testa o che le rimettiate sul piatto per l'occasione, sono le canzoni le inevitabili compagne di lettura. E le canzoni e i sogni che si tirano dietro portano via tempo. Questo libro può durarvi mesi, dunque, come è accaduto a me. Se i vostri ricordi coincidono poi con gran parte di ciò che trovate scritto da Blue, allora siete fregati.
Leggi il capitolo sui riff (da quello di “Whole lotta love” degli Zeppelin a quello di “Lola” dei Kinks, c'è tutta la gamma rappresentata) e ti metti davanti allo specchio con la padella. Scorri le pagine di “Beatles o Rolling Stones?” e riaffiorano i dubbi di sempre: i primi erano più melodici, i secondi più tosti. Deciso: meglio i secondi. Poi ti ricordi di “Angie” e “Helter Skelter”. Chi erano quelli tosti? Vabbè, incartameli tutti e due che ci faccio un bel pò di chilometri.
Ecco i “doppi dal vivo” quando i doppi dal vivo erano un punto di arrivo e non di partenza. Oggi non si nega a nessuno un dischetto da 79 minuti registrato a un concerto durante il tour del secondo disco. Un tempo, ai nostri tempi (vero Blue? vero Eleonora?), il doppio dal vivo era uno dei sogni più selvaggi e proibiti, dunque non arrivava mai, vedi Bruce al Winterland di San Francisco, oppure si chiamava “Fleetwood Mac Live”, e i Mac per meritarselo erano dovuti partire dall'Inghilterra, prendere casa in California, cambiare vita e rifare i documenti e soprattutto fare “Rumours”, il che non è proprio cosa da tutti.
Nel capitolo dedicato alle classiche “quattro facciate registrate dal vivo” si viaggia che è una bellezza, dalla Royal Albert Hall al Fillmore East, dal Trobadour sui boulevard californiani al Rainbow delle piogge inglesi. Portatevi scarpe comode che c'è da pedalare.
C'é un capitolo di bella sensibilità, dedicato alle parole che un tempo ti si conficcavano nel cervello, letali come le “silver bullets” di Bob Seger, proiettili micidiali se stai sotto ai vent'anni. La forza di quelle parole (da “Perfect day” e “Heroin” di Lou Reed a “New York City Serenade” del Boss) e il loro contrario, perché ognuno nelle canzoni ci vede qualcosa di personale, ognuno incolla le proprie figurine sui volto di Billy o mette il Lambrusco o Villa Borghese al posto della Sangria che qualcuno beve a Central Park. Canzoni come scatole vuote, talvolta, pronte per essere riempite da noi, e questo senso di intercambiabilità dei sentimenti l'autore lo ha centrato alla perfezione.
Le canzoni sono anche questo: satelliti per l'amore o un navigatore satellitare che impostiamo noi.
Potrei recitarvelo tutto, “Perché non lo facciamo per la strada?”, ma c'é D'Alesio con le sue camicie colorate che sgomita. Chiudo ricordandovi di scendere a comprare un pacchetto di C90 perché di suggerimenti per farvi qualche cassettina ce ne sono parecchi, e tutti validi, a firma Bottazzi.
Anzi, no, un momento: chiudo con una domanda all'autore, perché fa un po' figo e dà l'idea che il libro lo hai letto davvero:
- capitolo “Questioni di etichetta”, pagina 114, le “10 copertine più belle del rock”: mi metti “Amorica” dei Black Crowes e il suo triangolino e ti dimentichi “Late for the sky” di Jackson Browne con quel cielo e quelle luci alla Magritte? Ma un pelo di “f” tira davvero più della Chevrolet di “The road and the sky”? Siamo sicuri?
Si scherza. Lavoro egregio, compare. »
Ermanno Labianca, leggi tutto su Route 61
Leggi qui qualche capitolo di Perché non lo facciamo per la strada.
La copertina di Late For The Sky? Bellissima, me la ero dimenticata. Ho una copia del libro su cui appongo le correzioni a penna; questa l’ho appena aggiunta alla lista delle 10 più belle cover di tutti i tempi. Blue

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