E da questo punto in poi, la questione diventa politica: quel rapporto ha il compito di denunciare un cancro nello sport oppure gettare fango su Mosca, dipingendo la Russia come un Paese in mano a corrotti senza scrupoli? Il sospetto è legittimo: qualche mese fa con lo scandalo FIFA il governo russo venne accusato dall’FBI di aver corrotto alti dirigenti della federazione calcistica mondiale per farsi assegnare l’edizione 2018 della Coppa del Mondo. Ora il rapporto della WADA fa riferimento sì a molte irregolarità ma commesse in tempi molto diversi, alcune nemmeno in anni recenti: perché allora far esplodere lo scandalo solo ora? Qualcuno ha fatto pressioni perchè le rivelazioni avvenissero proprio adesso? Che si tratti di un privato cittadino, un’azienda o di uno Stato, l’ingrediente di una delegittimazione è il semplice sospetto, fondato o infondato che sia: basta lanciare il sasso nello stagno e smuovere le acque, poi penserà il mondo della comunicazione, in modo compiacente o in tutta buona fede, a farne uno tsunami.
Negli Anni Ottanta Ronald Reagan utilizzò ottimamente la comunicazione per screditare l’URSS dinanzi alla comunità internazionale: lo stesso epiteto “Impero del Male”, con cui l’allora presidente americano soleva riferirsi al governo sovietico, è rimasto il simbolo della riuscitissima opera dei guru dei media che lavoravano per la Casa Bianca di allora. L’utilizzo “chirurgico” di parole e immagini fu l’arma reaganiana per eccellenza, a cui il Cremlino, attraverso la TASS e la Pravda, non riuscì mai a contrapporsi.
Trent’anni dopo, l’Amministrazione Obama ha provato anch’essa a battere Putin usando la stessa tattica dell’illustre predecessore. Ma i risultati sono stati a dir poco grotteschi: tutti i tentativi messi in atto per gettare discredito sull’attuale classe politica russa attraverso campagne di delegittimazione mediatiche sono falliti miseramente, proprio perchè queste ultime sono state organizzate con superficialità ed incompetenza, fattori di cui in epoca reaganiana non vi fu traccia.
Già, perché questa politica a partire dal 2011 ha provocato soprattutto imbarazzanti gaffe. Si è cominciato all’indomani delle elezioni parlamentari russe, quando la Organizzazione Non Governativa Golos denunciò brogli, così gravi da aver alterato l’esito del voto. Ricordate? Mosca fu teatro per mesi di oceaniche manifestazioni anti-Putin, accusato di aver truccato le elezioni parlamentari per poter poi instaurare un governo autoritario una volta riconquistato il Cremlino. Ma ai più attenti osservatori non era sfuggito un particolare: Golos parlava di brogli, eppure Russia Unita (il partito di Putin) quelle elezioni le aveva in pratica perse, fermandosi al 49% quando i sondaggi indipendenti della vigilia lo davano al 54. In più, mancando il raggiungimento della maggioranza qualificata alla Duma, Putin perdeva pure la chance di poter modificare la Costituzione a suo piacimento. Se avessero truccato i voti, di sicuro quelli di Russia Unita l’avrebbero fatto per aggiudicarsi una maggioranza schiacciante, e invece…E allora, di che genere di brogli parlava allora la Ong? Gli eventi in Russia dell’inverno 2011-12 ricordavano in molti aspetti gli scenari delle Rivoluzioni colorate di qualche anno prima, ovvero un tentativo di destabilizzare il Paese nella delicata fase post-elettorale, partendo dalla denuncia di brogli a scrutinio ancora in corso fino alle occupazioni delle piazze da parte di movimenti inneggianti al modello politico occidentale. Un deja-vu in Georgia, Ucraina e Kirghizistan tra il 2003 e il 2005. Ma se l’ingerenza americana in quei fatti fu provata, cosa c’entravano gli USA con le denunce giunte da Golos?
Dai documenti messi in rete dal sito giornalistico russo Life News emerse che quattro giorni prima delle elezioni, ovvero il 30 novembre 2011, il Consigliere politico dell’Ambasciata Usa di Mosca, Kevin Covert, ebbe un contatto con Grigorij Melkonjanets, direttore generale di Golos, a cui il diplomatico americano avrebbe fornito istruzioni su come muoversi nella loro qualità di “osservatori” alle elezioni da tenersi di lì a poco. A ciò si aggiungeva una lettera di fine luglio 2011, in cui la Ong russa richiedeva esplicitamente ulteriori aiuti finanziari americani per poter continuare le attività di formazione degli osservatori in vista dell’imminente appuntamento politico e per far fronte a problemi di liquidità interna.
Come se non bastasse, proprio in quei giorni caldi Obama affidava la più importante Ambasciata statunitense all’estero al professor Michael McFaul, insigne accademico ma non proveniente dalla carriera diplomatica. E l’azzardata nomina ad ambasciatore in Russia di un personaggio totalmente a secco di esperienza diplomatica non tardò a rivelarsi infelice: appena insediatosi, McFaul commise una gaffe clamorosa, chiedendo un incontro con esponenti di Golos e di altre Ong prima ancora di recarsi a presentare le credenziali all’allora presidente Medvedev. Prima di lasciare anzitempo il suo incarico nel febbraio 2014 per non ben precisati “motivi familiari”, McFaul dovette anche gestire l’imbarazzante vicenda di Ryan Fogle, diplomatico dell’Ambasciata Usa ed agente della CIA, arrestato nel settembre 2013 dai servizi segreti di Mosca per spionaggio: Fogle aveva avuto il compito di reclutare agenti dell’intelligence russa, ma cadde (un po’da novellino) in un tranello tesogli dagli stessi uomini del FSB per farlo uscire allo scoperto.
Nel settembre 1983 Reagan mise all’angolo i sovietici che negavano di aver abbattuto un Boeing sudcoreano, reo di aver sconfinato nell’estremo oriente russo, sbugiardando pubblicamente le loro smentite e facendoli apparire come dei guerrafondai. Quando nel luglio 2014 sempre un Boeing, stavolta malaysiano, è esploso nei cieli del Donbass, a Obama non deve essere parso vero poter ripercorrere le orme dell’illustre predecessore. Ma anche stavolta, il remake è stato un flop.
A neanche ventiquattr’ore dal disastro, quando ancora non era ben chiaro cosa fosse accaduto al volo MH-17 della Malaysia Airlines partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur, Obama espose al mondo le sue certezze: l’aereo era stato colpito dalle milizie filorusse addestrate da soldati di Mosca con un missile terra-aria BUK. Ma se le immagini satellitari fornite della CIA confermavano la presenza sul territorio di quel genere di armamenti, non stabilivano però di quale esercito fossero in dotazione. E quelle prove “certe”, che per Obama avrebbero inchiodato i russi alle loro responsabilità, non si sono rivelate poi tali nemmeno nelle conclusioni del Dutch Safety Board, l’organismo tecnico olandese che il mese scorso ha stilato un rapporto sul disastro: il missile era di fabbricazione russa, ma chi l’abbia sparato non è possibile saperlo, dal momento che quel tipo di razzo è in uso anche delle forze armate ucraine.
Ma quelle “certezze” della Casa Bianca sul volo MH-17 erano già vacillate dinanzi al rapporto Osce sul disastro pubblicato ad agosto 2014, che escludeva l’ipotesi del missile terra-aria a favore di un cedimento della carlinga dovuto a numerosi fori provocati da “oggetti di piccole dimensioni”: un giro di parole per dire che l’aereo malese era stato colpito da proiettili sparati da un caccia di nazionalità sconosciuta.
E in questo caso, la prova “certa” l’avevano tirata fuori non solo i russi, rivelando la presenza di un Sukhoi-25 ucraino a poca distanza dal volo MH-17 pochi minuti prima della tragedia, ma addirittura l’edizione russa della BBC in un servizio del 23 luglio 2014 dalla zona dove i resti del boeing erano precipitati: secondo le numerose testimonianze raccolte dai residenti, al momento del disastro un aereo militare volava vicino al volo MH-17. Due giorni dopo, il video del reportage è stato misteriosamente rimosso dal sito della BBC, ma è ancora visibile su YouTube.
E si potrebbe proseguire con esempi analoghi, ma il senso della questione è ben reso da quelli sopracitati: l’attuale presidente americano ha mosso una guerra mediatica a Putin, ma la sta perdendo in modo netto. Del resto, nell’epoca del fact checking tramite social network, non ci si può improvvisare Reagan da un giorno all’altro. Se proprio Obama vuol copiare qualcosa dei suoi predecessori, sarebbe molto meglio se cominciasse con la politica estera di Franklin Delano Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto in questo momento in cui i valori nati dall’Illuminismo sono minacciati dalla violenza oscurantista del sedicente Stato islamico.