Il bisogno di immaginare una nuova strada dove sicurezza sociale e libertà riprendano a marciare insieme è essenziale. Senza giri di parole, dopo la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali del partito della Cancelliera tedesca, un nuovo New Deal sembra meno utopistico oggi di quanto non lo fosse qualche mese e perfino poche settimane fa. Dalla crisi può nascere qualcosa di buono e forse sono proprio i Paesi più in difficoltà che possono più contribuire a imporre un'altra direzione politica del continente. Ma l'opinione pubblica e i governi non sembrano purtroppo parlare la stessa lingua.
L'opinione pubblica degli Stati membri è sempre più convinta che i governi debbano riprendere in mano la progettualità economica e soprattutto togliere alla agenzie private di rating il potere arbitrario della reputazione (e della sfiducia). Invece i governi sembrano meno entusiasti dell'opinione dei loro Paesi, ma non c'è chi non veda che è nel loro interesse riaffermare l'orgoglio della politica come fece il governo federale americano quando negli anni '30 e '40 del ventesimo secolo lanciò una campagna poco tenera contro i “grandi papaveri della finanza”.
Il bisogno di un nuovo New Deal (molto bene argomento da Luciano Gallino su questo giornale) pare far breccia nell'opinione pubblica del vecchio continente, costringendo governi poco immaginativi a rivedere la loro tradizionale percezione della politica europea come non-politica o, al massimo, politica-cerotto. Di fronte al bivio di perire (poiché la sconfitta europea in Grecia può essere la premessa di un fallimento ben più radicale) o riprendere il filo interrotto della costituzione politica dell'Unione, è probabile che la necessità riesca a fare ciò che la volontà è stata fin qui incapace di fare: dare corpo al progetto di un'Europa politica democratica. Riprendere in mano il progetto federativo, a partire dal Trattato di Lisbona e rivedere radicalmente quello che eufemisticamente è stato battezzato come “patto di stabilità”.
Dove ispirarsi se non agli anni Trenta in America, dove la distruzione fu come oggi in Europa causata non dalla guerra ma dalla mancanza di regole e di governo dell'economia. Allora, negli Usa la depressione causò migliaia di suicidi, con una disoccupazione che in due anni passò dal 6% al 25% per cento, e con uno stato federale ostaggio del dogma del liberalismo agnostico e anti-governativo. L'emergenza fu domata con la politica non della contingenza e dell'eccezione ma della progettualità sociale. Nacque così la democrazia che è a noi familiare.
New Deal vuol dire “nuovo patto” fra il governo e i cittadini. Quando venne messo in cantiere, in due fasi tra il 1933 e il 1938, non c'era ancora la guerra ma la distruzione del sogno americano era già iniziata da qualche anno. Il grande presidente Franklin Delano Roosevelt comprese e fece comprendere ai suoi concittadini che c'era un solo modo per rispondere all'emergenza: diventando più, non meno democratici. In Europa, che era già sotto il tallone dei totalitarismi, a comprendere prima degli altri questa sfida furono i liberalsocialisti italiani. In articoli illuminanti Carlo Rosselli e alcuni collaboratori dei “Quaderni di Giustizia e Libertà”, che si stampavano clandestini a Parigi, mettevano negli anni '30 nero su bianco i criteri che dopo la guerra avrebbero consentito ai Paesi europei di ricostruirsi su basi democratiche: primo fra tutti la responsabilità del governo di garantire la sicurezza e la libertà.
Dove per sicurezza si intendeva non semplicemente quella fisica e per libertà non solo quella privata. Tre libertà furono messe in campo da quei visionari: quella politica, quella civile, e quella economica o sociale. Per far sì che queste tre libertà operassero insieme essi compresero che occorreva garantire tre sicurezze: l'azione del governo, la responsabilità dei cittadini, le garanzie di sicurezza economica o del lavoro. Il problema che si era posto il presidente Roosevelt era di fare interagire queste tre libertà e queste tre sicurezze, usando le istituzioni politiche non come guardiani agnostici. La strategia fu una sinergia federativa, della politica e della società.
L'esito del New Deal, un programma non tanto di incentivi all'occupazione ma di creazione di lavoro (per infrastrutture soprattutto, ma non solo) da parte del governo, fu l'opposto di quel che i suoi nemici liberisti temevano: non uno Stato tirannico ma uno Stato democratico. E in effetti, Roosevelt dovette convincere i suoi concittadini che egli non aveva alcuna intenzione di diventare un dittatore, che guidare uno stato non-interventista non era la stessa cosa che dar vita al fascismo. E così pure Rosselli, che proprio in quegli anni chiarì la differenza tra Stato democratico che interviene nell'economia e dittatura o totalitarismo.
Di qua e di là dell'Oceano (benché in diversissime condizioni) venne messo in quegli anni in piedi l'architrave di una concezione bipolare del liberalismo: uno non-interventista e indifferente alla democrazia, e uno sociale e naturale alleato della democrazia. La differenza stava proprio nel modo di interpretare la libertà. E la domanda che pose Roosevelt era molto ben posta ai liberali del primo tipo: siamo sicuri perché siamo liberi o siamo liberi perché siamo sicuri? Che cosa deve fare un governo democratico perché la sicurezza della libertà dei suoi cittadini sia vissuta, non solo sancita?
Nella repubblica federale americana, l'esito della grande depressione fu l'irrobustimento della democrazia e il rafforzamento della solidarietà: la realizzazione di quella “più perfetta unione” enunciata nella Dichiarazione di Indipendenza. L'esito fu la reinterpretazione del liberalismo come “libertà dalla paura” non dello Stato, ma dell'irresponsabilità degli interessi dei pochi a scapito dell'interesse generale. Salvare la democrazia dal collasso del capitalismo senza regole fu la scommessa vinta dal primo New Deal, l'architrave della nostra democrazia. È ragionevole pensare che la rinascita della legittimità democratica in Europa richieda un nuovo New Deal.
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