Perché Top of the Lake, True Detective e Fargo hanno cambiato lo storytelling televisivo

Creato il 23 giugno 2014 da Pianosequenza

Dall’impermeabile al mostro di fumo


In impermeabile anche quando prepara le omelette

A pensarci bene potrebbe sembrare strano, ma il nostro viaggio delirante nell’universo dello storytelling televisivo inizia dall’impermeabile sdrucito di un tenente italoamericano. Il serial tv Columbo (1971) è infatti uno degli esempi più efficaci di serial tv prima maniera: ciascun episodio è indipendente dagli altri, con un’avvincente trama che si sviluppa nell’arco di 100 minuti trovando infine una appagante conclusione; l’unico comun denominatore tra tutte le storie raccontate durante una stagione è il grandioso protagonista, Peter Falk, arguto indagatore travestito da sempliciotto. Ognuno di questi veri e propri film, soprattutto nelle prime stagioni, poteva vantare un formidabile lavoro di sceneggiatura e regia (molti mostri sacri della celluloide, come Spielberg, si sono fatti le ossa dirigendo episodi dello show) oltre alle interpretazioni di un cast spesso cinematografico, che ha visto negli anni succedersi una eterogenea e talentuosa quantità di artisti, spaziando da Cassavetes sino a Johnny Cash – protagonista di un memorabile episodio para-biografico in salsa country.


Lo smoke monster in tutto il suo splendore

Deve passare quasi mezzo secolo prima che prenda piede sul palcoscenico americano una nuova generazione di show: è il 2004 quando il volo Oceanic 815 precipita su un’isola misteriosa, dove tutto sembra possibile, cambiando per sempre il pubblico televisivo. Con Lost sono gli stessi concetti di “episodio” e “stagione” ad assumere un significato sostanzialmente diverso da quello tradizionale, perché la trama di ogni appuntamento settimanale diviene solo il piccolo pezzo di un puzzle enorme, ed in quanto tale risulta inaccessibile per chiunque si trovi a guardare lo show per la prima volta. Si tratta di un cambiamento epocale , visto lo “sforzo” senza precedenti in termini di attenzione e dedizione al serial che viene richiesto al pubblico, che però ripaga lo spettatore con una storia mai così complessa e avvincente, tale da generare intere comunità di aficionados pronti a speculare per anni sul significato e sui possibili sviluppi di ogni svolta narrativa.
Facili entusiasmi a parte, non è però tutto oro quello che luccica: le serie tv infatti, così come ogni altro prodotto televisivo, devono sottostare a leggi di mercato molto meno “nobili” di quelle artistiche, quali ratings, costi di produzione e le bizze di attori terrorizzati dall’idea di restare intrappolati in un ruolo decennale, che inevitabilmente finiscono con l’influire su molti aspetti dello show e, in ultima istanza, sulle sue strategie narrative. Anche un inatteso successo può avere conseguenze deleterie, costringendo gli autori in una “prigione dorata” di dollari ed aspettative dalla quale uscire diventa impossibile: ecco che anche la più promettente delle serie può spegnersi nell’arco di poco tempo, in uno stillicidio di stagioni sempre meno interessanti – Dexter (2006) è tra le vittime più eclatanti di questo meccanismo sadico.


In medio stat virtus


Forbrydelsen, un whodunit mozzafiato

Arriviamo così al presente, dove il tramonto di serial fenomenali – Breaking Bad (2008), Mad Men (2007) –  ha lasciato spazio per una terza strada, a metà tra i due estremi della narrativa televisiva: la mini-serie. Tenendo ben presenti anche i successi di realtà europee meno conosciute ma non per questo di minor qualità (soprattutto britanniche e scandinave), anche i principali network americani hanno infatti iniziato a dare sempre maggior fiducia a format seriali più contenuti, caratterizzati sin dall’inizio da una durata ed uno sviluppo ben definiti. Questa soluzione ha un duplice vantaggio, perché pur conservando uno spazio narrativo significativo, se paragonato a quello di un lungometraggio, libera gli autori da tutte le incognite (e le relative tentazioni) che si nascondono dietro una durata pluriennale, perennemente funestata da fattori esterni alla “sfera artistica”.
La soluzione finale è però frutto di una mediazione ben più scaltra, atta a preservare la fidelizzazione dei nuovi spettatori faticosamente accalappiati: le mini-serie vengono così concepite come frammenti di una struttura più grande, la “serie” vera e propria, che si propone di proseguire negli anni mantenendo intatto solo il pool di autori ma cambiando radicalmente di stagione in stagione interpreti e storie – un progetto teoricamente interessante, la cui effettiva riuscita è però ancora tutta da testare.
Durante la stagione televisiva 2013-14 tre serial sono stati i principali protagonisti di questa nouvelle vague, spaziando dalla remota Nuova Zelanda al gelido Minnesota, senza farsi mancare neanche i polverosi stati del sud degli States: Top of the Lake, True Detective e Fargo.


Il pessimismo cosmico di Top of the Lake


La crudeltà umana è selvaggia, quasi quanto la natura

Top of the Lake, scritto dalla mitologica cineasta neozelandese Jane Campion e dall’australiano Gerald Lee, pur essendo una mini-serie in senso stretto (non è prevista alcuna continuazione) rappresenta un modello ideale per questo nuovo modo di raccontare una storia in tv, essendo la sua durata totale (350 minuti) divisa in sei o sette episodi, a seconda della lunghezza scelta dal distributore per il singolo show, ognuno dei quali si conclude “sfumando” nel successivo, senza soluzione di continuità.
Data la significativa mole di tempo a disposizione, gli autori possono introdurre lo spettatore con grande cautela in un mondo distante anni luce da quello delle grandi metropoli occidentali: un borgo rurale della Nuova Zelanda, nel quale il tempo sembra essersi fermato. Questo periodo di ambientazione richiede forse un po’ troppa pazienza, tale da far desistere un pubblico più superficiale, ma è indispensabile per poter entrare “in ritmo” con la storia che ci verrà raccontata.
Al centro della vicenda c’è Tui (Jacqueline Joe), una dodicenne che nelle primissime scene viene salvata da un probabile tentativo di suicidio; il turning point arriva pochi istanti dopo, quando scopriamo che la bambina è incinta. All’orrore seguono le ovvie domande, poste dall’altra eroina del serial, Elisabeth Moss (già apprezzata in Mad Men), detective in fuga dalla confusa vita personale lasciata nella “grande città” e con alle spalle un vissuto persino più complesso. Basta poco per comprendere che nell’illibato paradiso naturale neozelandese, sovrastato da un cielo che sembra infinito, regna un ordinamento arretrato e patriarcale, dove piccoli soprusi hanno sedimentato per decenni dando l’impressione che l’impunità sia l’unica certezza.
Pur essendo girato per la maggior parte in esterni, Top of the Lake si distingue proprio per la sua atmosfera claustrofobica, che non origina dal setting ma dall’abilità degli autori, in grado di restituire personaggi e situazioni tali da dare il benvenuto allo spettatore in un incubo, che appare però inequivocabilmente radicato nella realtà. Una volta accettato il ritmo talvolta compassato della narrazione, si è assorbiti dalla storia e dai tormenti dei protagonisti, sulle tracce di un colpevole che ha fatto ben peggio del vostro “consueto” assassino da whodunit. Ha ucciso l’innocenza.


La storia ciclica di True Detective


Quando si dice "dedizione"

Vero e proprio happening televisivo dell’anno, True Detective ha raggiunto in breve tempo una celebrità inattesa, tale da dar vita a parodie, discussioni e speculazioni così complesse da rinverdire i fasti del mai dimenticato Lost. Con soli otto episodi, l’autore Nick Pizzolatto e il regista Cary Joji Fukunaga  sono stati in grado di mettere in moto la loro silenziosa rivoluzione dello storytelling, raccontando una storia compiuta, convincente e coerente; nonostante le sirene tentatrici, proporranno il prossimo anno una nuova stagione, mantenendo della osannata mini-serie appena conclusa solo il titolo e magari (nelle intenzioni) quella intangibile essenza che ha garantito tanto consenso.
Potrebbe sembrare poco, ma si tratta di un cambiamento sostanziale nella logica delle produzioni tv (sempre tentate dall’idea di spremere fino in fondo un’idea che funziona), indispensabile tra l’altro per rendere possibile l’ingaggio di Matthew McConaughey per il ruolo di acclamato uber-protagonista – l’attore texano, la cui metamorfosi degli ultimi anni meriterebbe una trattazione a parte, è diventato la star di maggior rilievo del panorama USA e con ogni probabilità non avrebbe mai accettato un ruolo in un serial convenzionale; la sua partecipazione (ed il successo di critica riscosso) convinceranno certamente altri “nomi” di grande livello a far parte dei nuovi capitoli della saga e di altri progetti omologhi: l’ennesima piccola rivoluzione.

La storia di True Detective è ambiziosa e complessa, spaziando su tre piani temporali diversi (nell’arco di quasi venti anni) per delineare un intricato reticolo di personaggi e situazioni; tutto inizia con una serie di brutali omicidi che sembrano far parte di un macabro rituale ed ogni nuova pista conduce a scoperte sempre meno rassicuranti.
L’ambientazione è semplicemente eccezionale: grazie alla fotografia di Adam Arkapaw si riesce a respirare l’aria rarefatta della Louisiana dove, lontani dal fascino di New Orleans, ci si trova di fronte ad infinite distese di acquitrini e baracche; in questi luoghi dimenticati da Dio, qualcun altro potrebbe sentire il dovere di prenderne le veci.
L’unico aspetto che colpisce più dell’atmosfera sono i due anti-eroi che la respirano: McConaughey e Woody Harrelson, i “veri” detective col compito di risolvere il caso, mentre si barcamenano in vite tutt’altro che perfette e soprattutto nel loro travagliato rapporto. Mentre il personaggio di Harrelson rappresenta un cliché ambulante (violento, indolente, fedifrago, ma tutto sommato un buono), quello di McConaughey sorprende sin dall’inizio per il coraggio con cui viene caratterizzato, quasi fino alla caricatura. Rust Cohle è infatti uno degli esperimenti narrativi più curiosi e meglio riusciti degli ultimi anni, soprattutto grazie al fuoriclasse che lo interpreta danzando con abilità sulla linea che divide il convincente dal ridicolo: sposa nichilismo, serenità zen, masochismo, teorie sulla ciclicità della storia e sull’infinito con nonchalance avvilente ed una ipnotica cadenza del sud; per minuti potreste non capire assolutamente nulla di ciò che sta blaterando, ma riesce a farlo in modo tale da risultare irresistibile.
Il regista di tutti gli episodi, Cary Fukunaga, è la ciliegina sulla torta di un progetto riuscito quasi perfettamente. Pronto a recitare un ruolo di primo piano nel panorama del cinema d’azione hollywoodiano, l’americanissimo trentasettenne dal cognome esotico riesce a sostenere in modo magistrale i numerosi cambiamenti di registro che la storia propone, dando il meglio di sé nelle sequenze più movimentate, che compaiono piuttosto tardi nel serial ma con un impatto esplosivo (in particolare, merita di essere menzionato il famigerato piano sequenza di oltre sei minuti che, ça va sans dire, ha garantito al regista tutta la nostra stima).
Come prevedibile, visto l’hype generato ed il crescente successo, l’epilogo ha diviso i fan, tenendo però fede alla promessa iniziale: quella di raccontare una storia, per intero, prima che gli autori (o gli spettatori) iniziassero ad annoiarsi. Il primo passo verso un futuro sicuramente diverso.


La filosofia coeniana di Fargo


Implacabile

L’unico modo per concepire un remake riuscendo ad onorare davvero l’originale è avere il coraggio di mantenerne l’essenza, per poi stravolgere tutto il resto. Deve essere stato questo il mantra recitato da Noah Hawley mentre scriveva le pagine del suo Fargo, divertendosi a trasformare il capolavoro dei fratelli Coen (1996) in una odissea lunga oltre 500 minuti (divisi in 10 episodi), piena di nuove idee e con un indimenticabile nuovo protagonista. Billy Bob Thorton interpreta un cattivo da antologia, che come un flagello biblico si abbatte sulla piccola comunità di Bemidji, Minnesota, corrompendo animi e facendo scorrere fiumi di sangue. Lorne Malvo, questo è uno dei tanti alias con i quali il sicario è conosciuto, ha molto in comune con lo psicopatico Bardem di No Country for Old Men, col quale condivide oltre ad un taglio di capelli quantomeno discutibile anche una etica deviata, fedele a contorti ed incomprensibili canoni morali. Il suo arrivo cambia radicalmente la vita di Lester (Martin Freeman), che da infelice underachiever diviene spietato maschio alfa, così come il futuro della acutissima Molly (Allison Tolman), membro della polizia locale, destinata altrimenti a sopportare per sempre la dabbenaggine dei suoi superiori.
Hawley riesce ad andare oltre il remake, perché fa propria la massima di un altro film cult dei Coen, A Serious Man, che è possibile estendere a tutta la loro filmografia: “in questo ufficio, ogni azione ha sempre una conseguenza, non solo fisica, ma morale” afferma infatti il protagonista, un professore, allo studente che sta goffamente tentando di corromperlo; come rivelerà l’epilogo, quelle parole rappresentano una sentenza inappellabile. L’ufficio del professore è in realtà, per esteso, il luogo stesso dove esiste il Cinema dei Coen, un universo spietato ma allo stesso tempo giusto, dominato da una forza superiore che chiede conto delle azioni di ognuno; Lorne Malvo è il mezzo attraverso cui questa giustizia si abbatte su tutti i protagonisti del “nuovo” Fargo, un deus ex machina implacabile e vendicativo, infallibile nello smascherare la vera essenza di quelli con cui si confronta – c’è in effetti qualcosa di sovrumano nelle sue gesta. Questa chiave di lettura permette di interpretare la sostanziale differenza tra il personaggio di Freeman ed il suo alter ego cinematografico (William H. Macy): mentre Macy è una miserabile vittima degli eventi, Lester si rivela una ticking bomb alla quale era necessaria per esplodere solo una piccola spinta. Allo stesso tempo la presenza del “flagello” rende possibile la nascita di una coppia per la quale è impossibile non provare empatia (Molly ed il goffo Gus, Colin Hanks) ad ulteriore dimostrazione che c’è comunque speranza per i puri di cuore, anche di fronte alla più temibile delle “divinità” coeniane.
Thorton è formidabile: il suo ineffabile Malvo, un essere al di la del bene e del male, riesce persino a risultare in qualche modo simpatico, un antagonista per il quale parteggiare – Hitchock insegna che si tratta di uno dei segreti per il successo di un film; come lui, anche il resto del cast si rivela indovinato e sempre in parte, in ognuno dei piccoli ruoli ritagliati ad arte da Hawley.
Nonostante i numerosi cambi alla regia, ogni episodio mantiene una cifra stilistica ben precisa, dal ritmo avvolgente, costruita su attente dissolvenze e movimenti di camera mai banali: le immagini sono spesso protagoniste della scena, accompagnate da un epico contrappunto musicale.
Qualora venisse rinnovato dalla FX per una seconda stagione, anche Fargo cambierà storia ed interpreti, sposando convintamente la causa di questo nuovo approccio alla serialità in TV. Non sappiamo cosa ne verrà fuori ma, come ogni innovazione che si rispetti, merita tutta la nostra attenzione. Ed un pizzico di incoraggiamento.


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