Percorsi biografico-musicali: G come… Grand Funk Railroad

Creato il 28 luglio 2013 da Redatagli

Piaciuta la Firenze underground e heavy metal della mia generazione? Bene, ora ritorniamo di volata negli States per la prossima lettera. Nello specifico torniamo nel Michigan e a Detroit, ma facciamo un salto indietro di alcune decadi per scoprire una rock band molto spesso lasciata ingiustamente a latere nel trattare la storia del genere.

Siamo nel pieno dell’esplosione della stagione hard rock di fine anni ’60 e, mentre tutti guardano all’emergere dei fenomeni britannici, anche gli U.S.A. offrono il loro contributo alla nuova temperie musicale e generazionale. Con la G dunque torniamo su terreni noti e classici, ma ci concediamo di dare un’occhiata laddove di solito si estendono veli d’ombra. Proprio qui molto spesso si scoprono le cose più interessanti.

G come… Grand Funk Railroad

Vi consiglio: Grand Funk Railroad, Closer to Home

Tracklist: Sin’s a Good Man’s Brother / Aimless Lady / Nothing Is the Same / Mean Mistreater / Get It Together / I Don’t Have to Sing the Blues / Hooked on Love / I’m Your Captain / Bonus Tracks: Mean Mistreater (Alternate Mix), In Need (Live), Heartbreaker (Live), Mean Mistreater (Live)

Etichetta: Capitol Records. Anno: 1970 (digitally remastered, 2002)

A fronte di tante scelte relativamente semplici o comunque sia biograficamente dovute, la G è stata il mio primo vero scoglio. Difficile operare la scelta tra i gruppi della mia personale collezione di dischi non essendovene alcuno che emergesse decisamente rispetto ad altri. Le opzioni avrebbero potuto essere tante e ognuna avrebbe potuto avere la sua giustificazione. Infine la risoluzione è emersa da sé, ripassando i contenuti di quei magici oggettini piatti che la gente comune chiama CD. I Grand Funk Railroad sono dunque la mia G biografico-musicale.

Nati nel 1969 a Flint, sobborgo industriale di Detroit, i Grand Funk sono stati tra i pochi gruppi hard rock statunitensi a resistere allo strapotere dei gruppi inglesi tra fine anni ’60 e inizio anni ’70 [1]. Generalmente noti al pubblico per la loro cover-hit The Locomotion, il trio ha inanellato nella prima fase della sua carriera (durata sino al 1976) una serie di dischi e di singoli di altissimo valore.

Trovo azzeccate le parole adottate da Metallus: «I Grand Funk sono stati una delle band più enigmatiche e misconosciute del genere, ricordati solo per l’immenso volume delle loro performance e non per essere stati una delle band più popolari (e innovative) uscite dal calderone musicale americano a cavallo degli anni ’70 (quando si trattò di riempire lo Shea Stadium furono capaci di polverizzare perfino il record dei Beatles)» [2]. Il loro stile trionfa soprattutto per la sua innovatività: inserito nel solco classico dell’hard rock e del blues, e al contempo rimescolato con le carte di certo country e southern rock, e con il groove mutuato dal rhythm’n’blues e del soul. La loro centralità nella storia della musica rock è dovuta però anche al loro ruolo pionieristico per quel che riguarda gli standard dei volumi adottati durante i propri concerti. Vere e proprie bombe ad orologeria sul palco, i Grand Funk Railroad sono da più parti riconosciuti come una delle band apripista della successiva stagione heavy metal.

Scoprii per la prima volta i Grand Funk Railroad proprio grazie al suddetto libro, Metallus, prima grande opera a carattere enciclopedico sui gruppi principali della musica metal. Ovviamente grande spazio era dedicato anche a gruppi pionieristici come i Grand Funk che mi si piantarono immediatamente nella memoria. Ebbi l’occasione di ascoltarli per la prima volta in alcuni episodi dei Simpsons [3] e quindi dal vivo grazie agli Overload, tribute band fiorentina dei grandi classici del southern rock che ne coverizzava l’immortale We’re an American Band.

Qualche anno dopo, la Melbook Store di Firenze mise in saldo buona parte della discografia del trio statunitense e io, ovviamente, ne approfittai subito portandomi a casa Closer to Home, terzo prodotto della band. Era un periodo particolare per la mia formazione musicale: uscito di recente dalla fossilizzazione nell’asse metal-punk-rock che aveva egemonizzato la maggior parte dei miei ascolti, scoprivo progressivamente sound nuovi che precedentemente avrei snobbato. Furono soprattutto le lezioni di canto ad aprirmi tutto un panorama sulla musica jazz, sul blues, sul gospel, sul soul e sul funk [4]. I Grand Funk, come precedentemente riportato, avevano convogliato questi retroterra musicali all’interno di un hard’n’blues potente, rumoroso e massiccio, eppure semplice, immediato e orecchiabile. Di fatto costituivano il trait d’union ideale per ricollegare i lidi delle origini della musica rock con quelli dell’hard’n’heavy più puro. Due territori determinanti per il sottoscritto: da un lato il lascito degli ascolti paterni, dall’altro l’area sondata, scoperta, amata senza se e senza ma, in maniera del tutto autonoma. L’antinomia trovava finalmente il suo equilibrio [5]

Closer to Home è uno di quei dischi senza una pecca, senza un pezzo storto, senza una caduta di tono. Introdotta da un riff acustico cullante, la traccia d’apertura Sin’s a Good Man’s Brother irrompe improvvisamente col suo sound sanguigno, rude e verace. Il sound engineer, Ken Hamann, ricorda a tal proposito che vennero portati in studio degli amplificatori costruiti da Dave West, amico del chitarrista Farner:

The amplifer was capable of putting out tremendous amount of power, of corse. We shook up the whole neighborood!” [6]  

Sottolineata dalla favolosa linea vocale di Mark Farner, chitarrista, la traccia segue un andamento ritmico decisamente groovy appoggiandosi su arrangiamenti blues che vanno a svilupparsi in improvvise virate hard rock che strizzano l’occhio al funk. Queste sono le coordinate entro cui si muove sostanzialmente l’intero lavoro dei Grand Funk Railroad. Emergerà a tratti un’anima soul nella semistrumentale Get it Together e nell’indovinatissima Hooked on Love, brano che personalmente adoro per il suo coinvolgente refrain e per il botta/risposta tra Farner e Don Brewer, batterista, durante il ritmato bridge che a sua volta si sviluppa in una vorticosa progressione hard’n’heavy.

Così anche la sommessa e cupa Mean Mistreater conosce un crescendo che vira verso un imporsi prepotente delle tastiere, creando un’atmosfera dolente e al contempo straniante senza però perdersi in un flusso psichedelico. Le radici rhythm’n’blues e funk emergono chiaramente in Nothing Is the Same, altro pezzo dal groove contagioso e dal clamoroso sviluppo, in I Don’t Have to Sing the Blues e nella pazzesca Aimless Lady.

La vera chicca, il vero capolavoro dell’intero album è però la commovente I’m Your Captain in cui emergono con forza anche la sensibilità sociale e il messaggio politico dei Grand Funk: il pezzo è infatti dedicato alle migliaia di soldati mandati a combattere in Vietnam che ogni notte pregano per la propria sopravvivenza e per poter tornare a casa sani e salvi. Il verso che si ripete nella seconda parte del tune, «I’m getting closer to my home» (Mi sto avvicinando a casa), ha fornito a sua volta il titolo all’album [7]. Grande ballata dal sapore malinconico e dal grande contenuto umano, I’m Your Captain è l’apice di questo disco: un lungo oscillare cullante di quasi dieci minuti, con tanto di onde e suoni dell’albeggiare che si intuiscono a circa metà del pezzo, quasi a sottolineare ottimisticamente che l’incubo è finito e stiamo tornando a casa. Col nostro carico di esperienze e di traumi, ma finalmente verso casa. Non c’è pezzo migliore di questo nella storia del rock per descrivere lo stato d’animo del ritorno.

Ma i Grand Funk Railroad, come detto all’inizio di questa nota biografico-musicale, erano anche una potenza della natura dal vivo. Nella rimasterizzazione del 2002 sono state inserite come bonus tracks, insieme a una versione alternativa di Mean Mistreater, tre pezzi live di tutto rispetto: si parte con la travolgente In Need, più di undici minuti di pura e travolgente follia sonora, potente e letale, strabordante di solismi da far andar via di cervello (ecco dove molti metallari devono aver appreso i propri rudimenti rumoristici); si passa quindi alla commovente e avvolgente Heartbreaker, vera e propria nenia rock blues per i cuori spezzati; si chiude con Mean Mistreater che amplifica al massimo il suo potenziale straniante con il dilagare degli acuti delle tastiere e dei solismi che ne prolungano (seppur di poco) la durata. Il rock dei Grand Funk Railroad, fuori dalle mode e vero e proprio termometro di una generazione giovanile esplosiva, è il segno di un’epoca ed è pioniere di un universo musicale che seguirà. Come ebbe a dichiarare Terry Knight, il loro produttore, a proposito del loro terzo lavoro:

There are three who belong to the New Culture setting forth on its final voyage through a dying world…searching to find a way to bring us all CLOSER TO HOME”. [8]

doc. NEMO

@twitTagli


[1] In quel periodo emergevano in Inghilterra nomi quali Led Zeppelin, Pink Floyd, Deep Purple, Black Sabbath, The Who, Uriah Heep etc. Non esattamente gli ultimi della classe. Emergere in un panorama musicale (giustamente) egemonizzato da band di questo calibro non doveva essere certo semplice. Non ultimo considerando che anche negli States c’era una discreta concorrenza tra Jimi Hendrix e The Doors, così, tanto per dirne due…

[2] Grand Funk Railroad, in Metallus. Il libro dell’heavy metal, a cura di Luca Signorelli e della redazione http://www.metallus.it, Giunti,Firenze, 2001, p. 80.

[3] Tra i tanti fan che i Grand Funk possono annoverare vi è infatti anche il mitico Homer Simpson, come emerge chiaramente in Homerpalooza (24° episodio della VII stagione dei Simpsons) in cui dichiara: «A cosa servono tutti gli altri gruppi se sono già esistiti i Grand Funk Railroad?»

[4] Musiche che in realtà avevo già sperimentato da piccolo grazie ai nastri (sì, musicassette, sì, sono un rudere) del babbo. Ma subentrata la fase di conflitto generazionale aperto e l’intransigenza duropurista metal-punk-rock, avevo volutamente deciso di fare (almeno apparentemente) terra bruciata intorno a me. Anche se in realtà mi piacevano ancora quei pezzi, non lo avrei mai confessato per puro orgoglio. Solo col tempo riscoprii ed emancipai questa passione, il canto e il maestro Matteo Bonciani mi hanno aiutato in tutto questo.

[5] Non certo la sua sintesi: come è giusto che sia, esiste ed esisterà sempre una forma “conflittuale” di sensibilità musicale tra me e il babbo. Si tratta, a mio modo di vedere, di un momento determinante in quanto aiuta le rispettive parti (soprattutto il figlio) a prendere coscienza di sé, della propria specificità, della propria personalità. Avanti col tempo è bene però che l’antinomia si faccia contenuta, che si rinegozi, che si riequilibri, che defluisca, ma senza mai scomparire del tutto.

[6] Steve Roeser in Closer to Home, CD booklet, Capitol Records, 2002, p. 3. Traduzione: «L’amplificatore poteva sparare un’incredibile quantità di potenza, naturalmente. Abbiamo dato uno scossone a tutto il vicinato!» P.S. Queste chicche non si trovano online e scommetto che quando scaricate le vostre discografie in mp3 non le trovate le ristampe dei booklet dei dischi. Ecco cosa vi perdete.

[7] Vedi Ivi, p. 1.

[8] Terry Knight in Closer to Home cit., IV di copertina. Traduzione: «Ci sono tre [ragazzi] appartenenti alla Nuova Cultura che stanno apprestando il suo viaggio finale attraverso un mondo morente…cercando di trovare un modo per portarci tutti più vicini a casa».


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