Un voto anti austerità, un voto contro l'Europa. Molti, in casa ma anche tra i commentatori anglosassoni,hanno interpretato così il risultato elettorale. Gli italiani si sarebbero ribellati a un'Europa che ci impone più tasse e più rigore di spesa e così ci condanna a una recessione prolungata, alla perdita di posti di lavoro e, per molti, alla povertà. Legata a questa interpretazione è anche l'idea secondo la quale gli elettori si sarebbero anche ribellati al dover subire leggi imposte dai nostri creditori. In particolare dalla Germania, dipinta in campagna elettorale come il Paese che detta regole alla periferia dell'Europa, traendo, in tal modo, anche un vantaggio economico che le dà la forza per alzare la voce nell'Unione. A Bruxelles e a Francoforte, soprattutto, le «capitali» dell'Ue tanto lontane dalla nostra realtà, così poco comprese e in cui si ha l'impressione che la voce dell'Italia non si senta. Ci sarebbe insomma rabbia, comprensibile, per la sovranità ceduta in nome della moneta unica.
C'è un po' di vero in questa storia. Il voto italiano è un messaggio non solo per Mario Monti e Pier Luigi Bersani, ma anche per Francoforte e Bruxelles. Chiedere di aggiustare i conti attraverso regole di bilancio troppo aspre e nel mezzo di una stretta del credito ha un costo moto alto. Una ricetta più efficace, in linea teorica, si sarebbe potuta basare su un aggiustamento diluito nel tempo per i Paesi indebitati e un'espansione della domanda nei Paesi creditori. L'Europa non ha preso questa strada, optando per scelte più dolorose. Io non credo si tratti di un calcolo cinico della Germania, ma della sostanziale mancanza di fiducia verso la credibilità di un patto alternativo. Un patto che si sarebbe dovuto reggere sulla concessione di un risanamento più dilazionato a fronte dell'impegno italiano a mettere in atto politiche per il consolidamento di bilancio nel medio periodo.
Questa mancanza di fiducia tra creditori e debitori, in Europa, ha radici lontane e ha percorso tutta la storia del negoziato sulla costruzione dell'Ue dal Dopoguerra; essa si basa su quella complessa esperienza. Ma la diffidenza si spiega proprio con la nostra debolezza fondamentale, cioè con la mancanza di coesione della nostra società e la mancanza di fiducia per chi ci governa. Che cos'è il nostro debito pubblico persistente se non il risultato di un processo sviluppato per creare consenso politico, attraverso sprechi e sussidi perché non si ha la forza e la lucidità di trovare un equilibrio diverso, basato sulla percezione di un interesse comune? Se uscissimo dall'Europa questa causa fondamentale delle nostre difficoltà non sarebbe rimossa. Il disagio si manifesterebbe sotto altre forme e l'inevitabile aggiustamento dei conti si farebbe ricorrendo a svalutazioni di cambio e inflazione. Questo forse ci darebbe, sul breve, un po' di fiato, ma ci renderebbe nel tempo più poveri, condannandoci a competere ai margini di un'economia globale in cui i Paesi emergenti stanno facendo un'altra scommessa, e cioè quella della tecnologia, del capitale umano, del rinnovamento delle istituzioni. Proprio quella che noi, «sovranamente», non riusciamo a fare.
È giusto chiedere di contare di più in Europa ed è giusto portare avanti l'idea di un coordinamento delle politiche economiche tra nazioni basato sia sul consolidamento dei conti per i debitori, sia sull'espansione della domanda per i creditori. Tutto ciò,però, non può bastare a farci ripartire e in ogni caso rimarrà richiesta inascoltata. Acquistare voce in Europa significa saper scegliere un nostro percorso credibile capace di risolvere i problemi di lunga data, quei problemi che sono alla base della nostra stagnazione ventennale. La traccia di questo cammino è la condizione per riguadagnare piena voce in Europa, per ritrovare la fiducia al nostro interno, per superare la frammentazione. E ripartire. Nella consapevolezza, soprattutto, che la mancanza di sovranità oggi denunciata si spiega poco con i vincoli europei. Nasce, prima di tutto, dalla nostra debolezza.