Perdiamo il lavoro, perdiamo il futuro

Creato il 16 settembre 2013 da Tabulerase

L’Italia, come tutti i paesi europei, è entrata nella spirale della crisi dopo il 2009, ma il suo ingresso è stato salutato con uno schiaffo in pieno viso ai lavoratori e alle lavoratrici. Mentre in Francia ed in Germania le tutele, il welfare e una politica industriale hanno tenuto l’occupazione su livelli non preoccupanti, in Italia l’assenza di una strategia di assorbimento delle nuove generazioni ha consentito lo smantellamento di qualunque solida idea di avvenire. L’Istat ci ha consegnato a settembre i più recenti dati sull’occupazione: dal 2010 al 2013 abbiamo perso 1 Milione di posti di lavoro tra gli under 35enni.

Una città pari a tre volte Bari è stata espulsa in meno di quattro anni dal lavoro, dall’identità, dalla società italiana tutta. Al sud più che al nord, ovviamente. Siamo di fronte ad una tendenza tragica che stona con quello che accade, invece, in altri paesi. Negli Usa l’occupazione giovanile è sostenuta da interventi programmatici e il ricambio generazionale stimola la crescita e lo sviluppo.

In Italia s’è fatta una riforma che tarda l’uscita dal lavoro degli ultrasessantacinquenni e assicura al precariato ed alla flessibilità, quando non alla disoccupazione o al lavoro nero, i più giovani. Perdere lavoro giovane significa perdere il tempo futuro, la continuità, la sabbia che nella clessidra italiana non si accumula, ma va via, si spande al vento soffiata verso un destino amaro e incerto. Va fatto più che qualcosa: va cercata una ricetta dolorosa che rimetta in equilibrio un sistema paese che assomiglia sempre più a una residenza per anziani.

Noi siamo il paese occidentale più longevo, dunque il più vecchio, ma siamo anche il solo a non avere politiche attive del lavoro per i giovani. Il nostro sistema di welfare si poggia sulla tacita comprensione delle famiglie. Comprensione che si trasforma ogni giorno di più in una compressione dei risparmi di una vita.

I pensionati prestano o regalano denaro ai figli ed ai nipoti, ma per quanto ancora? E per cosa? Per un futuro instabile o stabilmente precario: un non-futuro. Assistiamo inermi alla distruzione sociale della credibilità del lavoro, perché se lavorano soltanto i vecchi si produce poco, male e non si sta sui nuovi mercati.

Le colpe e le responsabilità sono nella politica, certo, ma anche in una classe di imprenditori che ha confuso la finanza con l’economia reale, e spesso l’evasione con il benessere. Ci stiamo rimettendo tutti, quando tutti dovremmo rimetterci in marcia. La prima esigenza di questo paese è un grande gesto di generosità ed equilibrio sociale da parte di chi vive di rendita da troppo tempo. Una redistribuzione morale delle opportunità e una liberazione di risorse affinché i giovani, i talenti, il seme dell’avvenire non si sparga più su un terreno sterile.


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