La pianificazione urbanistica deve prevedere il soddisfacimento dei relativi standard e la perequazione dell’intervento tra le diverse figure che vi partecipano.
Le norme urbanistiche stabiliscono le quantità di standard urbanistici, mentre la giurisprudenza afferma che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto, la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che l’articolo 41 sexies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito” (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 maggio 13 n. 2916).
Il quadro che emerge dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria, riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva e, come tali, destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata.
Il che comporta, come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica.
La cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede.
In particolare, la IV Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 616, del 10 febbraio 2014, rappresenta che l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile.