E’ proprio necessario dare un nome agli eventi naturali?
Cosa è questa moda recente all’americana di affibbiare nomignoli, presi a prestito dalla storia e dalla mitologia, ad ogni acquazzone? Dobbiamo per forza copiare tutto?
Cosa cambia tra il prevedere l’arrivo di Medusa e l’informare, tramite i soliti canali, che una perturbazione dalle caratteristiche più o meno intense, si abbatterà sulla penisola nei prossimi giorni, come si è sempre fatto?
Dare un nome ad una tempesta la rende diversa? Più o meno ostile?
Ricominceremo tra poco a costruire are votive e a sacrificare agnelli agli dei per placarne le ire e mitigare la rabbia di Beatrice, Poppea o Caronte quando passano nel nostro cielo?
Sono state le nuvole che hanno chiesto di avere una carta d’identità?
Ma, soprattutto, chi (è il pirla che) sceglie il nome per primo? E in che modo lo comunica a tutti?
Si fanno conferenze stampa, ci si mette d’accordo tra meteorologi a cena la sera prima, si tira a sorte, si apre a caso il sussidiario delle elementari?
Sono sempre più reazionaria, rivoglio la poesia.
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto.
Il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì e si chiuse, nella notte nera.
Il Lampo. G. Pascoli