È una domanda che spesso mi sono posto quando, parlando con amici e colleghi, ho dovuto ascoltare giudizi entusiasti su tanti libri di recente pubblicazione o su vari film degli ultimi anni.
Ho sentito da loro lodi sperticate su tanti film di pura evasione che raccontano una vacanza a Miami o un sogno in California. Ho ascoltato apprezzamenti sconfinati su romanzi capaci di trasportare il lettore tre metri sopra il cielo o su libri che invitano a tante spazzolate ai capelli prima di andare a letto.
Chiedendo che cosa lasciano certi film o certi libri, quale arricchimento recano, la risposta è sempre la stessa: un po’ di divertimento, una pausa dagli impegni quotidiani o al massimo una riflessione sulle difficoltà degli adolescenti che diventano grandi. Nessuna pretesa di grandezza dunque, ma tanta voglia di semplicità. La mia impressione immediata è quasi sempre stata quella di una semplicità che nasconde il vuoto.
Come sottolineare allora che i grandi romanzi sono quelli che lasciano qualcosa nell’animo e che i grandi scrittori, i grandi classici, vanno letti non per soddisfare un'esigenza di erudizione, ma come bisogno essenziale di crescita culturale ed umana?
Per far passare questo concetto si può fare riferimento ai sacri testi, ai grandi studiosi. Leggete l’Auerbach, Debenedetti, Contini e scoprite il concetto di realismo, il romanzo del Novecento, la grandezza di Gadda! Ma un invito di questo tipo sarebbe condannato alla sconfitta e considerato immediatamente come esibizione della propria cultura specialistica.
Ho pensato allora a una sorta di test empirico per accorgersi della grandezza di un romanzo o di un film. Nessuna pretesa di generalità. Si tratta di questo. Nei grandi libri, sempre o quasi sempre c’è un momento, o talvolta anche più di uno, in cui il protagonista, o uno dei personaggi principali, dedica una frase, un pensiero, un breve monologo o anche un dialogo alla propria esistenza. Una specie di riassunto della propria vita, della propria vicenda. E non è affatto necessario che costui parli di esperienze rappresentate esplicitamente nel romanzo o nel film. No, niente di tutto questo, perché il personaggio è talmente ben costruito, così ben raccontato che il lettore o lo spettatore non hanno bisogno, per credergli completamente, di aver visto ciò di cui parla. Lo spettatore lo sente così vero quando parla o riflette che non richiede nessuna prova razionale della verità delle sue parole. È lui stesso, il personaggio, la prova della verità. E indirettamente ciò esprime la grandezza dello scrittore o la capacità dello sceneggiatore e del regista.
Propongo alcuni esempi.
Consideriamo le ultime righe de “L’educazione sentimentale”.
Federico e Deslauriers sono sempre in cerca di avventure.
“Una domenica, mentre tutti erano ai vespri, Federico e Deslauriers, dopo essersi fatti radere e arricciare i capelli, avevano raccolto dei fiori nel giardino della Signora Moreau, erano usciti dalla parte dei campi e, fatto un lungo giro attraverso i vigneti, erano tornati per la Pescheria e s’erano infilati dalla Turca, sempre coi loro mazzi di fiori in mano.
Federico aveva offerto il suo come pretendente a una fidanzata. Ma un po’ per il caldo che faceva là dentro, un po’ per lo sgomento dell’ignoto, per una specie di rimorso, fors’anche per il piacere di vedere con una sola occhiata tante donne tutte a sua disposizione, Federico si emozionò a tal punto che si fece pallidissimo e restava lì, senza muoversi, senza parlare. Le ragazze, rallegrate dal suo imbarazzo, s’erano messe a ridere; credendosi beffato, Federico era scappato via; e dato che era lui ad avere i soldi, Deslauriers era stato costretto a seguirlo. Li avevano visti uscire e ne era nata una storia di cui si parlava ancora dopo tre anni.
Se la raccontarono da capo con tutti i particolari; ciascuno completava i ricordi dell’altro. Quand’ebbero finito: «Non abbiamo mai avuto niente di meglio dopo» disse Federico.
«Già forse hai proprio ragione: non abbiamo avuto di meglio», disse Deslauriers”.
In quello scambio finale è racchiusa la vita di entrambi, la loro amara consapevolezza del passato. Flaubert ripercorre attraverso un dialogo solo accennato gli struggenti ricordi dei protagonisti e costringe il lettore a riflettere sulla loro esistenza. E di conseguenza anche sulla sua stessa vita.
Un secondo esempio.
Pensiamo al ragionier Ugo Fantozzi.
In un momento di tragica difficoltà, in macchina con la moglie, ripercorre la sua vita.
“Però se credono di farmi fuori, si sbagliano, perché io, Pina, ho una caratteristica. Loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile. E sai perché? Perché io sono il più grande perditore di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto. Due guerre mondiali, un impero coloniale, otto, dico otto campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d’acquisto della lira, il duce e chi mi governa. E la testa per un mostro ehm, per una donna come te”.
In queste parole c’è tutta la sua vita. È stata la vita di un’intera generazione. Quanta verità e umanità nel suo sfogo dignitoso e calmo! Una comicità che si trattiene solo quel tanto che basta per non sfociare nella tragedia. Ricordiamo il creatore del personaggio, Paolo Villaggio e i grandi sceneggiatori: Leo Benvenuti e Piero De Bernardi.
Un terzo esempio.
“Io ne ho... viste cose che voi umani non potreste immaginarvi… Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser… E tutti quei… momenti andranno perduti nel tempo… Come… lacrime… nella pioggia… È tempo… di morire…”.
Tratto da “Il cacciatore di androidi” di Philip K. Dick, il monologo finale del replicante nel film di Ridley Scott “Blade Runner”, è un meraviglioso esempio di un personaggio che dedica gli ultimi momenti della sua esistenza al racconto di ciò che è stato. Egli è vero, immensamente vero. Non possiamo negarlo! Anzi è qualcosa di più. È l’impossibile! È persino umano! Riflettiamoci. Che cosa lo rende così umano? Solo la bellezza e la suggestione contenuta nelle parole? Non solo, secondo me, ma anche, appunto, la perfetta corrispondenza di quello che afferma con l’atmosfera e la struttura della storia narrata. È un grande personaggio, insomma.
Mi direte: ma che razza di confusione letteraria è questa? Mettere insieme Gustave Flaubert, Paolo Villaggio e Philip K. Dick?
Io rispondo: è solo un test empirico, una prova alla buona per individuare le tracce del grande personaggio e del grande narratore e per mostrarle ai difensori del racconto di pura evasione.
Sarà pure una prova alla buona, ma andatele a trovare, nei sogni a Miami, tre metri sopra il cielo o nelle spazzolate prima di dormire, certe tracce!