La Berenson venne giudicata da un tribunale militare, in pieno stile fujimorista: un giudice dall’identità protetta, incappucciato e dalla voce distorta da un apparato elettronico la condannò all’ergastolo, da scontare nel durissimo carcere di Yanamayo, situato sulle Ande, a 3650 metri, nella regione di Puno. La denuncia di Amnesty International –che la considerava un prigioniero politico- e l’intervento diretto del Centro Carter per i diritti umani le valsero un nuovo processo, questa volta civile: il tribunale, che si riunì nel 2001, la giudicò nuovamente colpevole per terrorismo e le rifilò venti anni (http://www.freelori.org/). Dalla prigione, la Berenson ha sempre negato ogni attività violenta, riconducendo la sua appartenenza all’Mrta (smantellato nell’aprile 1997 con l’uccisione dei suoi principali leader nella presa dell’ambasciata giapponese) al conseguimento di un ideale di giustizia sociale, un obbligo morale verso chi è sfruttato.
Nata nel 1969 a New York, laureata al Mit, la Berenson iniziò la sua avventura latinoamericana nel Salvador della guerra civile. Da volontaria del Cispes, un’organizzazione di solidarietà che aiutava i civili salvadoregni coinvolti nel conflitto, divenne la segretaria particolare di Leonel González, uno dei leader del Frente Farabundo Martí. Una volta raggiunta la pace nel paese centroamericano, la Berenson decise di trasferirsi in Perù, dove si arruolò presto nelle fila dell’Mrta, grazie all’amicizia con Nancy Gilvonia, moglie di Nestor Cerpa, numero uno del movimento. Secondo il procuratore Julio Galindo, gli anni della prigionia non ne hanno mitigato il furore rivoluzionario: lui la dipinge come una fredda calcolatrice anche quando, nell’intervista per la libertà condizionale, indicava nei suoi doveri di madre i suoi nuovi obiettivi nella vita. La Berenson si è infatti sposata in carcere nel 2003 ed ha avuto un bambino, che oggi ha due anni e mezzo e che ha chiamato Salvador, in ricordo dei tempi trascorsi nel paese centroamericano.
Il suo viaggio negli Stati Uniti è stato marcato da feroci polemiche. Il governo ha infatti denunciato i tre giudici che le hanno firmato l’autorizzazione per lasciare il Perù: è molto probabile, infatti, che la Berenson una volta a New York non torni più in Sudamerica, dove l’aspetterebbero altri tre anni di regime di semilibertà prima di scontare definitivamente la sua pena.