Pare che non passi giorno senza che dobbiamo assistere a antiche e nuova manifestazioni di rifiuto e esclusione di strati più o meno estesi di cittadini, nativi o non, da parte di un ceto dirigente che declina il suo razzismo nelle forme le più varie, esplicite, provocatorie, ipocrite, bisbigliate o strillate, violente o sorridenti, come si fa per convinzioni bonarie largamente condivise.
Oggi è la volta dello scriteriato Pescante che dovrebbe interpretare a nome del Paese nel Cio, i valori unificanti dello sport, ispirati a principi universali di uguaglianza e fratellanza nel segno di generose e serene competizione.
E come no: per prendere le distanze da quello che ha definito il “terrorismo politico” degli Usa (e Dio sa quante volte avremmo potuto essere d’accordo) che osano mandare delle atlete gay ai giochi di Sochi, in palese disubbidienza alla blindatura omofoba di Putin, si è espresso senza peli sulla lingua, da quel maschio rude che è, perbacco: “È assurdo che un Paese così invii in Russia quattro lesbiche per dimostrare che in Russia i diritti dei gay sono calpestati. Lo facciano in altre occasioni. I politici approfittano dell’Olimpiade. Basta con queste strumentalizzazioni”.
Beh in effetti se si dovessero mandare in Russia le rappresentanze simboliche di diritti, convinzioni e comportamenti sottoposti a feroce censura da parte del piccolo zar amico del puttaniere nostrano e di innumerevoli altri bestiali dittatori, sai che pienone.
E in fondo non stupisce una così inopportuna affermazione che denuncia pareri piuttosto diffusi e stati d’animo discriminatori e razzisti. Alla pari di quelli che dicono io non sono xenofobo, ma certo i rom rubacchiano, non sono antisemita ma la crisi è colpa dei banchieri ebrei, e perché no? tutte le donne sono puttane salvo mia madre e mia sorella, uno come Pescante ci fa capire che gli omosessuali sono sopportabili e addirittura accettabili, purché restino nei recinti loro dedicati: balletto, moda, trucco e parrucco, spettacolo. Purché si tengano fuori o vivano ai margini di un mondo, il suo, dai ruoli ben definiti, dove deve essere stabilito il primato della potenza, quindi del maschio, o di donne virili a condizione siano così asessuate, come robot ben oliati che garantiscono magnifiche performance, da far dimenticare il genere, o talmente femminili che la bellezza abbia il sopravvento sul rendimento. Così che se per i primi si parla di muscoli, per queste ultime invece si fa menzione di tutù, gonnellini, fidanzamenti esuberanti e gelosie muliebri.
E che le loro porcherie le facciano in clandestinità, fuori da stadi, palestre e spogliatoi, altrimenti ne va del buon nome dello sport e anche dei contratti pubblicitari miliardari che con le nobili contese ormai vanno di pari passo.
Non occorre scomodare la teoria del disgusto della Nussbaum per assimilare le credenze di Pescante a quella ideologia dei poteri forti che è nauseata da comportamenti non conformisti, da sessualità politicamente scorrette, da somatiche e estetiche meno gradite, meno plastiche, meno trattate e che denunciano differenze e debolezze: malattia, vecchiaia, povertà. O da inclinazioni meno accettate, magari perché fanno affiorare antiche insicurezze di sé e della propria identità più recondita, incertezze inconfessabili, altri “io” sepolti in sé.
Non può che preoccupare un uomo di regime la potenza simbolica che assume, nella competizione più antica del mondo subito dopo la guerra, la rivendicazione di diritti universali. C’è il rischio che prenda piede e si assicuri la medaglia d’oro.