Peter Brosens e Jessica Woodworth: La quinta stagione

Creato il 29 luglio 2013 da I Cineuforici @ICineuforici
La quinta stagione
(La cinquième saison, Belgio 2012, 93 min., col, drammatico) In un’intervista del giornalista Ian Mundell, il belga Peter Brosens e la statunitense Jessica Woodworth, sollecitati a parlare delle loro influenze cinematografiche, ricordano numerosi registi. L’intervista termina richiamandone uno in particolare e viene ricordata, per bocca di Brosens, una sua citazione: “C’è questa formidabile frase di Werner Herzog: ‘Cosa abbiamo fatto ai nostri paesaggi? Abbiamo imbarazzato i nostri paesaggi!’" (T.d.a).


È da questa citazione che si può partire per commentare La cinquième saison, ultima fatica della coppia e presentata a Venezia lo scorso anno.
La Natura si “imbarazza”, per dirla con Herzog, di fronte all’uomo e alle sua attività. Essa viene trattata come se non esistesse, come mezzo per la sopravvivenza e mai come fine: non si accomodano più i suoi “movimenti”, si preferisce “forzarla” a fare qualcosa. In un paesino delle Ardenne belghe, la Natura ha deciso di abbandonare al suo destino il pianeta Terra, affogandolo in un perpetuo inverno. Tre ragazzini Thomas (Django Schrevens), Alice (Aurélia Poirier), Octave (Gill Vancompernolle) insieme al filosofo apicultore Pol (Sam Louwick) tentano di ridare dignità al paesino vallone, ma invano: non sarà l’ambiente a sconfiggerli, bensì gli altri paesani.
La morte come impossibilità di morire Un inverno strano e non freddo, piuttosto tiepido in primavera, caldo in estate e piovoso in autunno. Ciò che inverna infatti, e qui sta uno dei colpi di genio dei due registi, non è la temperatura, ma per l’appunto la Natura. “Morte” è la parola chiave di questo “generale inverno”: muoiono gli alberi, la terra e i sentimenti degli uomini, ma questo è un’impasse. È come un disco che si blocca e non riesce a ripartire: si vive ancora morendo. Il padre di Alice muore sul trattore, ma questo continua ad arare i campi in un continuo cerchio; la storia d’amore fra Alice e Thomas non ha il tempo di germogliare e si arena nel fango del bosco. Insomma, per assurdo, si è di fronte all’impossibilità della morte; non resta più che morire, ma non si riesce a farlo: il disco si è incantato. Il gallo non canta, ma non decide di scappare. Esso rimane lì, facendo soffrire il suo padrone. Gli alberi non cadono tutti insieme, prima scricchiolano e poi si appoggiano al suolo in lassi di tempi diversi. La natura fa soffrire l’uomo e la sua arroganza lasciandolo lì, in balia delle intemperie, in un purgatorio degli elementi. È come se torturasse l’uomo, consapevole del fatto che si soffre di più sapendo che si morirà, ma senza sapere quando e come, piuttosto che morire e lasciare lo spazio al “niente”.


La degenerazione umana Una volta che la palla di neve viene fatta rotolare, non c’è più bisogno di intervenire: si trasformerà in valanga senza nessun’altro aiuto. La Natura ha lanciato la sua vendetta, ora sta all’uomo sopravvivere. La valanga miete molte vittime, alcune scappano, alcune deperiscono e altre si prostituiscono. L’unico che “comprende” quanto succede è il filosofo-apicultore. Non perché non sia stato toccato dal “generale inverno” (le sue api sono tutte morte e non può vendere il miele), ma per la sua ostilità nei confronti dell’ignoranza. Sa che la Natura ha le sue regole e come tale non può essere cambiata dall’“altro” se non causando, guarda caso, una valanga di cambiamenti. Al massimo si può fare in modo di rendere la situazione meno difficile per gli altri: si accarezzano gli alberi per farli rinascere o si tenta di abbellire il mondo morto con fiori finti. I temi religiosi dunque abbondano, ma non hanno un fine moralizzatore. Anzi, tutt’altro. Un uomo dal calibro di Pol non può essere capito dal villaggio. Per di più non ha fissa dimora, dorme in una roulotte nel parcheggio del bar e ha un figlio disabile (Octave). Nei momenti di crisi, gli uomini cercano un capro espiatorio e esso viene trovato nella figura Pol, novello “martire”. Il tutto si chiude come era cominciato, ossia con il tentativo di bruciare lo “Zio Inverno”. La prima volta e senza successo, da lì l’incipit per l’eterno inverno, con un fantoccio, mentre la seconda con Pol, anche lì senza successo. Infatti il rituale di bruciare l’inverno, e la sua reincarnazione Pol, è destinato in entrambi i casi a fallire. Da qui in poi c’è solo la degenerazione umana: non riuscendo a bruciare l’inverno/Pol con il solito rituale, si procede bruciandolo nella sua roulotte: da naturale che era, La cinquième saison si trasforma in fiaba sociale ricca di metafore e spunti (le maschere bianche carnevalesche possono essere associate al bianco del Ku Klux Klan o la roulotte al rapporto con le minoranze rom).
Lo sguardo della Natura: tecnica ed estetica La Natura, nel film di Brosens e Woodworth, non si manifesta, come in Herzog, attraverso i suoi frutti (fauna, flora e i vari elementi), ma in maniera divina: a volte panteisticamente e altre in modo più cristiano. Al bando dunque i primi piani (sono rarissimi: baci abbozzati o sguardi tristi dei protagonisti) e spazio a vedute dall’alto, perpendicolari al suolo (bellissime le inquadrature nelle stalle) e simmetriche. Come nei dipinti dei più grandi pittori belgi, i personaggi occupano uno spazio dove ognuno compie il suo dovere; in una veduta d’insieme dai colori dapprima pastello per poi, col proseguo della pellicola, sfocare in acquerello se non, addirittura, in sole tonalità di grigio.
È raro vedere la Natura esprimersi in questa maniera al cinema: chapeau!
Mattia Giannone

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