Però devo ammettere che l'elemento che mi ha più colpito di più di questo album va scorto nelle melodie; melodie che si imbastardiscono ma che nascono da una radice lontana, propulsiva nella storia di Gabriel. Mi riferisco, in particolare modo, a canzoni come Blood of eden, Washing the water e Fourteen black paintings. Sì, i pattern ritmici richiamano l'Africa, ma poniamo attenzione al flusso del dettato melodico. E' Rael che canta all'equatore; è il cantore di Cinema Show immerso in una vacanza esistenziale volta a contemplare la Stella del Sud invece del Grande Carro.
Il resto è noto ed, estremamente, piacevole perché confezionato con intelligente professionalità (e attenzione al mercato). Gabriel ritenta la vivace scommessa - e la vince - di Sledgehammer e Big time con Steam, Digging the dirt e Kiss that frog; prova l'esperimento afro-celtico (cornamuse e tamtam in Talk to me) e, per migliorare l'architettura strutturale di alcune track, si affida alla sensuale sinuosità del basso di Levin (Love to be loved e Only us).
Anche i testi si arricchiscono di una maggiore trazione introspettiva, toccando talvolta aspetti personali e intimi, pur con una gittata più estesa (tanto da realizzare quella magia di immedesimazione che le liriche di una canzone possono attivare). Us è uscito con TV Sorrisi e Canzoni e Il Corriere della Sera lo scorso 27 aprile. (Riccardo Storti)