Detto questo, scorrendo sommariamente le 435 pagine delle motivazioni della sentenza, che il 16 novembre scorso mandò assolti i cinque imputati accusati, a vario titolo, della strage di Piazza della loggia a Brescia del 28 maggio 1974 (8 morti, oltre 100 feriti), si ha la sensazione che manchi qualcosa, che forse si poteva fare di più. Non perchè i giudici non abbiano fatto correttamente il loro lavoro, vivisezionando un'indagine complessa, facendo slalom in norme processuali e indirizzi giurisprudenziali che hanno, par di capire, affossato gli sforzi della procura di dare spessore alle collaborazioni e alle nuove prove documentali emerse dagli archivi dei servizi segreti, ma perchè rimane la sensazione che forse si poteva fare un balzo in avanti, cercando ad esempio di salvare quegli elementi forse non utili a stabilire la responsabilità penali degli imputati, ma importanti per offrire un minimo contributo alla verità storica. Ha ragione Manlio Milani, il presidente dei famigliari delle vittime della Strage, quando si tratta di una sentenza senza contesto storico, elemento imprescindibile in un processo come questo, diventato invece un calderone testimoniale dal quale estrarre ciò che poteva essere utilizzato e ciò che non serviva, ciò che era ritenuto credibile (poco) e ciò che doveva essere considerato delirio testimoniale (ad iniziare dalle dichiarazione del "principe" dei collaboratori Carlo Digilio).
Parlando di risultati schizofrenici dell'inchiesta i giudici si dilungano a spiegare come sia atto di civilità nei confronti degli imputati stabilire una verità processuale sui singoli più che una verità nel suo insieme. Un principio che nessuno sembra mettere in discussioni, ma che esternato così nelle premesse delle motivazioni a me, impressione personalissima, suona quasi come una giustificazione che forse l'approccio all'inchiesta poteva essere diverso. Pur arrivando alle medesime conclusioni, poteva distillare alcune certezze storiche che oggi, a distanza di tanti anni, qualcuno ancora mette in dubbio e, forte di queste conclusioni, continuerà a farlo.
A novembre uscendo da quell'aula con la faccia sgomenta di Manlio Milani impressa nella mente, mi era capitato di scrivere che questa sentenza era l'ennesimo insulto ad una città ferita. Una valutazione forte (anche contestata da qualcuno, tacciandola di scarso garantismo) non tanto dettata da una assoluzione (a mio avviso tutt'altro che imprevedibile), ma dall'impressione che un passo avanti poteva essere fatto verso la verità. Oggi continuo ad essere convinto che non mi sbagliavo, così come continuo ad essere consapevole che l'insulto più grave, lo schiaffo più duro, non arrivi dalla Corte d'Assise, che, pur col motore al minimo, ha fatto il suo lavoro, ma da quanti, ad iniziare dai servitori dello Stato, hanno continuato a tacere e a trincerarsi dietro interessati "non ricordo".
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