Mi risvegliai con la bocca amara. Infilai un paio di scarpe e il cappotto. Dalla collina, gli alvei stradali vomitavano auto nel lungopo, intasato di scatolette ripiene di uomini e donne sole. I loro cattivi pensieri rendevano l’aria pesante, nervosa, ipertesa; gli affluvi odorosi di fango esalavano dal Po in densi nuvoloni giallastri, offuscando i lampioni.
Nel viale scortato da ippocastani, pochi passeri volavano frettolosi sul tappeto di foglie marce. Era una domenica come tante. Dal contrappunto dei clacson, il crescendo di una sirena s’infranse come onda sulla semicurva della carreggiata, sperdendosi ancora con un semitono calante nella fiumana metallica. Non pensavo a chissà che. Mi sentivo svuotato. Il panettone della Gran Madre dominava dal ciglio della sua gradinata l’ampia spianata della piazza, degradante all’opposto oltre il solco del fiume. Il tempio circolare contrastava con la regolarità del rettangolo della piazza, che opponeva un austero colonnato alla perfezione neoclassica del pronao. Un dialogo aperto tra cielo e terra: la sfera celeste proiettata in un cilindro poggiato saldamente alla ripa scoscesa del colle e l’austera regolarità dei tre quadrati del selciato, allineati al centro sull’asse dei binari tramviari, appesi come una collana attorno al fulcro della chiesa. Percorsi l’esile tratto di linea del ponte che unisce i due opposti. Sull’arcata centrale, sospeso sull’acqua scorrente, tra cielo e terra, mi sorprese il desiderio di un caffè. Oltrepassando la spiaggia torinese dei Murazzi, che di notte straboccavano di birra e di bambini danzanti, snobbai il vecchio bar divenuto modaiolo e scelsi un piccolo locale sull’esedra, la graffa che chiude come il gesto di un direttore d’orchestra la geometria dei porfidi e delle luserne. Qui il caffè non era un dovere, servito per forza tra calici bruni cari come gioielli.
Il cinema Impero aveva chiuso per abbandono, la gente preferiva gli infernali multiplex di periferia. Davanti all’ingresso, le vetrinette offrivano collane di plastica e case deserte. Mi affacciai oltre per osservare la piazza dall’altro lato: il cielo, tracciato dalle spesse linee dei cavi elettrici; le lance dei lampioni, fusti di cannone puntati sul centro del mondo. Il traffico era una trapunta d’acciaio che nascondeva il silenzio delle pietre. Acciaio su pietra, pietra su pietra, su pietra, su pietra … un silenzio stratificato e maestoso … ancora pietre si innalzavano poderose a sostenere la monotonia delle facciate. Le colonne, simili alle campane tubolari di uno stupa, erano ora i pioli di una scala che non sembrava terminare, che non sembrava portare in nessun dove. Dal fiume saliva all’esedra e poi là, dopo uno stretto giro, si rituffava, come un arcobaleno in una fontana. Ma, guardando oltre il fiume, la scala riemergeva davanti alla Gran Madre, che ne stabiliva il punto di congiunzione nell’esiguo colonnato della facciata: il punto del cielo dove ciò che finisce ricomincia … dove ciò che era ritorna ad essere … dove il tramonto può diventare alba … quel punto dove il sole si rifugia la notte, prima di ritornare a splendere. Ora invece, piazza Vittorio somigliava a una foresta incantata, impietrita da una gorgone crudele. I tronchi induriti dall’astio abbracciavano una radura che aveva perso la sua pace, la sua temperata possanza: come se lo smeraldo del mio sogno si trovasse sotto l’esile linea che trattiene l’anima al corpo che che le appartiene.
(©cittasottile 2004)