di Cristiano Abbadessa
Il quarto di finale degli europei di calcio tra Germania e Grecia, giocato venerdì scorso, si è prestato nella vigilia a facili giochi sul filo di una interpretazione politico-economica dell’evento: l’hanno chiamato “derby dello spread”, è stato sottolineato il sentimento di rivalsa dei greci contro i “colpevoli” della loro situazione economica, si è posto l’accento sulla voglia di riscatto prettamente nazionale (in senso buono) opposta a una storica ansia di egemonia continentale. Da parte di quasi tutti quelli che si sono prestati al gioco trasparivano evidenti simpatie per i poveri piccoli e maltrattati greci e l’antipatia per i potenti dominanti e arroganti tedeschi.
Al netto delle valutazioni tecniche, debbo però dire che anche altre considerazioni mi avrebbero impedito di provare una particolare simpatia per i tartassati greci. Magari fino a due o tre mesi fa certi sentimenti erano condivisibili, e il ruolo di mere vittime poteva attagliarsi ai greci. Dopo la doppia tornata elettorale, direi proprio di no. Perché se il grande capitalismo e la finanza internazionale ti rifilano calci nei denti, ti espropriano della democrazia, cancellano la tua sovranità nazionale, gettano tranquillamente sul lastrico buona parte del tuo popolo, ti colonizzano e ti impongono una sorta di servitù, il minimo che dovresti avere è un concreto scatto di orgoglio. Se invece, pure a fatica, alla fine voti e fai vincere quella coalizione che si offre come cameriere del padrone e fedele esecutore degli ordini, rinunciando alla possibilità di ridiscutere i patti e di diventare il primo significativo esempio di fuoruscita dal capitalismo finanziario globalizzato (pagando dei prezzi, ma anche costituendo un modello che l’indomani potrebbe fare proseliti e alleati), be’, allora arrangiati e non venire a chiedere la mia solidarietà, la mia comprensione e la mia partecipe simpatia. Perché sarai pure una vittima, ma adesso ci stai mettendo del tuo per crogiolarti in quel ruolo senza far nulla per uscirne.
Quella verso il popolo greco è la stessa istintiva reazione che provo verso tanti soggetti del mondo editoriale (e non solo, peraltro). Grandi lamentazioni, denunce contro la struttura oligopolista del settore, disprezzo per le logiche di marketing più smaccatamente estranee a qualsiasi progetto culturale. A parole. Poi, nei fatti, si tratti di editori o di librai, di autori o di commerciali, la rassegnazione ad adattarsi, il tentativo di ritagliarsi un piccolo posto sullo strapuntino dei potenti e la sistematica rinuncia a esplorare, seriamente e con generosità, qualsiasi alternativa al modello tanto vituperato.
Credo ci sia lo spazio per pensare e agire in modo diverso, unendo le forze e le idee. Ma con i compagni di strada giusti, quelli che non amano il mugugno lamentoso fine a se stesso.
Faceva specie notare come molti, per prima cosa, avessero immaginato una biblioteca virtuale, in cui la prima figura a scomparire era quella del bibliotecario. Cosa che in realtà non mi stupisce più di tanto, perché ricordo i miei temi “di fantasia” alle elementari e mi rendo conto che anch’essi trasudavano una passione per le meraviglie futuriste di una robotica il cui scopo era, al fondo, quello di eliminare relazioni umane che infastidissero o turbassero il naturale e smodato egocentrismo tipico di ogni fanciullo
Mi preoccupava di più, qualche anno fa, un amico non più fanciullo che in una certa fase della sua vita si divertiva a porsi domande e trovare risposte in una sorta di reiterato problem solving relativo all’efficacia di alcuni servizi, dalle code nei supermercati all’ottenimento dei certificati anagrafici. Ogni volta la fantasiosa soluzione tecnologica prevedeva la cancellazione di alcune figure lavorative, seppure a bassa qualificazione.
Ora, magari il bibliotecario è un mestiere bello utile e interessante, mentre altre manovalanze somigliano più a piccoli ingranaggi di una ripetitiva catena di montaggio, e chi svolge quel lavoro ne farebbe volentieri a meno, potendo. Resta però il fatto che, finora, alla cancellazione dei lavori ha sempre corrisposto solo l’arricchimento del capitalista, mai la redistribuzione sociale degli utili.
Quando ero bambino, mio padre mi diceva, con l’ottimismo di chi era stato ragazzo durante una guerra e aveva misurato la miseria vera prima di conoscere la rinascita e l’effimero “boom”, che immaginava un progresso tecnologico in grado di liberare l’uomo dalla necessità del lavoro. Pensava che si sarebbe lavorato poche ore alla settimana a testa, giusto per dovere sociale, e che la sovrapproduzione avrebbe reso beni e servizi alla portata di tutti, a prezzi stracciati o persino gratuitamente. Giova precisare che mio padre non è mai stato comunista, ma che trovava semplicemente naturale che il progresso dovesse essere fatto per l’uomo (tutti gli uomini) e non contro l’uomo.
Le grandi leggi economiche, fatte da uomini e non certo di natura, impongono che le cose vadano diversamente. E noi tutti, come i greci, ci acconciamo a rispettarle, difendendo con le unghie gli ultimi lembi di personale e privato (relativo) benessere. Almeno fino a quando non capiremo che noi siamo tanti e loro pochissimi. E, ciascuno per quanto gli compete, andremo tutti insieme a riprenderci quel che ci è stato tolto.